lunedì 19 luglio 2021

Chi vuol esser mosca umana?



La leggenda delle “inclinazioni naturali”, che sarebbero delle caratteristiche innate di un bambino che lo portano ad essere più o meno vocato per una particolare tipologia di attività (e quindi, nell’età adulta, per il corrispondente tipo di impiego o occupazione; “naturali” poiché completamente indipendenti dall’ambiente e dalla classe di provenienza) si diffuse nella pedagogia spicciola occidentale nella prima metà del XX secolo. 
Era uno strumento polemico con cui la piccola borghesia americana rivendicava il “diritto” di partecipare al banchetto della sorella maggiore, ma essendo particolarmente grato alle piccole borghesie di tutti i paesi occidentali, si diffuse rapidamente anche oltreoceano, fino a riverberare nei codici e nelle dichiarazioni di principio in molti paesi europei (vedi articolo 147 del codice civile italiano); nonostante il fatto che la parola “inclinazioni” non compaia in nessuna ricerca scientifica degna di nota, e sia inutilizzata nella letteratura filosofica. 
Ma in base alla rassicurante narrazione delle “inclinazioni naturali” si giustificava la pretesa di dedicarsi ognuno a ciò che gli garba di più, senza nulla dovere a considerazioni pratiche di sostenibilità, economiche di produttività, fattuali di ordine, disciplinari di distribuzione del lavoro. Tutta roba che possiamo trascurare: io sento “dentro di me” (lì dove nessuno può sindacare) una “inclinazione naturale” per la musica, e quindi mi dedico allo studio del violino. E nulla conta se tutti vogliono fare i violinisti, e nessuno vuole riparare le automobili: sta bene così, andremo tutti a piedi, ma circondati dalle soavi note di Paganini. 
Che in questa narrazione fosse nascosta una pretesa impossibile della piccola borghesia americana protesa alla sua arrampicata sociale, nella metà del ‘900, se ne accorsero in molti. Tra questi il grande fumettista americano della Disney Carl Barks, che proprio per ironizzare sulla nuova moda delle “inclinazioni naturali” scrisse una storia capolavoro, No such Varmint del 1951, tradotto in Italia come Paperino e il Serpente di mare

Questa storia stupenda è stata interpretata in molti modi (Qui, ad esempio, ce ne è una lettura interessante, da cui ho preso le immagini [1]), ma a me piace prenderla a paradigma per osservare la subdola ideologia borghese delle inclinazioni naturali, una delle due componenti maggiori de l’ideologia delle doti, come la chiamava Pierre Bourdieu già negli anni ‘70 (l’altra è l’ideologia del merito, messa sotto accusa da Michael Sandel nel recentissimo The Tyranny of Merit, 2021 [2]).

Riassumiamo la trama: Qui Quo e Qua non riescono ad accettare che molti abitanti di Paperopoli siano personaggi di successo, dediti ad occupazioni fighe (cioè remunerative in termini di riconoscimento sociale) mentre il loro zio Paperino è un fannullone, che si accontenta di lavoretti saltuari. 
I nipotini soffrono per questa mancanza di prestigio dello zio, più che per ristrettezze economiche - “certa gente è grande e certa gente è pidocchiosa” - un prestigio che la società paperopolese assegna, naturalmente, solo alle professioni borghesi. Ma come si intuisce osservando l’ultima vignetta della prima pagina, a questo prestigio sociale non corrisponde un valore reale. “Ed ecco l’avvocato Frottola, famoso per la sua abilità e per l’oratoria”. L’avvocato Frottola. Suona ancora meglio in inglese: The lawyer Liar. Lo si vede camminare su un cuscino d’aria, sussiegoso, tronfio e supponente, presumibilmente ricco, ed abbigliato in abiti borghesi (addirittura in tight). 
Barks vuole suggerire ai suoi giovani lettori che l’eroe borghese in realtà è un pezzo di merda: la considerazione sociale di cui gode non è meritata.
Ancora maggiore è l’indignazione dei nipotini quando vedono che lo zio si è dedicato a un nuovo passatempo inconcludente, quello di incantare serpenti, tanto da non pensare quasi più a nient’altro.
Come Barks sottolinea ripetutamente - “our heads are bowed in shame” - ciò che affligge i nipotini non è affatto la mancanza di denaro, ma la mancanza di prestigio sociale associata all’occupazione prediletta dello zio, l’incantatore di serpenti, nel modello culturale dominante. 
Ma ecco che Qui, Quo e Qua scoprono, leggendo il giornale, che c’è a Paperopoli un “professore”, uno “scienziato” in camice bianco - il prototipo dei pedagogisti sapientoni bersaglio della satira di Barks - che ha inventato una macchina in grado di scoprire le inclinazioni naturali di ognuno, misurando la “lunghezza d’onda del cervello”: una caratteristica immaginaria, ma evidentemente innata, di ogni singolo soggetto. Essendo questa lunghezza d’onda innata, per nulla correlata a fattori ambientali, c’è la possibilità che chiunque abbia l’inclinazione naturale per essere qualsiasi cosa: lo zio Paperino potrebbe essere un potenziale Dottore, oppure Banchiere (due occupazioni di alto rango, nella gerarchia fissata dal modello borghese) si tratta solo di scoprire quale sia, questa misteriosa inclinazione naturale. Meraviglioso!
Convincono dunque a fatica lo zio a sottoporsi al test, che viene effettuato, ma il professore scambia una mosca che si è posata sullo schermo per una virgola, e quindi legge la lunghezza d’onda di Paperino pari a 11,5, mentre in realtà la macchina dice 115. 
La lunghezza d’onda 11,5 corrisponde - secondo un esoterico catalogo che ha il professore, in cui ad ogni lunghezza d’onda corrisponde una inclinazione naturale - niente meno che a un investigatore: i nipotini sono addirittura entusiasti, perché il detective gode di un riconoscimento sociale elevatissimo: 
 


 
Ma queste storie barksiane contengono molto di più di quello che si legge superficialmente. 
Osserviamo la prima delle due vignette qui sopra: Fiend... Chicken Thief... Human Fly... uomo malvagio... ladro di polli... mosca umana... A parte il fatto che non ho mai capito cosa una mosca umana sia, quello che Barks ci vuole suggerire qui è che se davvero esistesse una roba innata, come la lunghezza d’onda del cervello, che si può mettere in corrispondenza biunivoca con una particolare inclinazione naturale, beh allora dovrebbe esserci una lunghezza d’onda per qualsiasi possibile occupazione, non solo per banchieri, dottori o violinisti. 
Qualcuno dovrebbe avere la sua bella inclinazione naturale per fare il malvagio, il ladro di polli o pure la mosca umana, qualunque cosa sia: l’autore qui vuole farci vedere il lato oscuro di questo concetto. 
Ma è nella seconda vignetta che Barks sottolinea di nuovo quel che gli interessa di più: a rendere preferibile una occupazione (inclinazione naturale) rispetto a un’altra non è tanto la remunerazione, è soprattutto il prestigio sociale: “Oh boy! Something we can be proud of!” Ragazzi! Qualcosa di cui possiamo essere orgogliosi! 
E questo prestigio a sua volta è assegnato in base a una tabella di valori, codificati nel canone del suo modello culturale. Nel modello culturale borghese il canone è soprattutto letterario: è Sir Arthur Conan Doyle a codificare stabilmente il detective tra le occupazioni desiderabili, creando un eroe per il suo pubblico borghese nel celebre personaggio, il detective Sherlock Holmes. 
Purtroppo per Paperino, tra gli eroi borghesi non c’è nessun incantatore di serpenti, come non c'è nessuna mosca umana..
Ma naturalmente Paperino non ha nessuna intenzione di fare il detective, e continua a incantare serpenti, nonostante le insistenze dei nipotini. Nel finale della storia, dopo che Paperino ha incantato addirittura un enorme serpente marino, il professore, resosi conto dell’errore, raggiunge la famiglia dei paperi e gli comunica che si è sbagliato, ma che la lunghezza d’onda del cervello di Paperino è rarissima, eccezionale, e gli potrebbe consentire di diventare addirittura... il più grande incantatore di serpenti di tutti i tempi! 
Purtroppo però ormai è troppo tardi. Le disavventure vissute hanno convinto Paperino a lasciar perdere i serpenti per sempre. E quindi egli torna alla sua consueta vita, fatta di lavori modesti, di poco o punto prestigio, ma che gli consentono di vivere, e che non lo rendono per questo infelice.
“Alcuni uomini sono destinati ad essere grandi dottori, altri ad essere grandi banchieri.. and some are like unca Donald - ed alcuni sono come lo zio Paperino”. 
I nipotini sono malinconici, ma Paperino non è infelice: in questa vignetta conclusiva lo si vede raccogliere sporcizia al parco, mentre è sereno e fischietta. 
Egli è immune dalla trappola della rappresentazione borghese dell’io: per qualche ragione, non è stato contaminato dal modello culturale egemone della società borghese. 

Si possono trarre diverse morali da questa storiella, lo so. Quella che suggerisco io è questa: non esistono le inclinazioni naturali, e non esistono occupazioni o lavori che siano in sé più fighi di altri. Se noi tendiamo - più o meno tutti, nelle nostre predilezioni - a preferire “violinista” a “ruspista” non è perché violinista sia di per sé più figo di ruspista. Non è perché sia meno faticoso (lo è di più: una ruspa di recente generazione si manovra in punta di dita, in un abitacolo climatizzato, silenziato, profumato, coccolati dalla musica e seduti in una poltrona come quella di Actarus di Goldrake, mentre a suonare il violino si suda, e dopo due ore il braccio ti fa male); e non è perché sia più remunerativo (lo è di meno: un operatore qualificato si fa pagare tra i 100 e i 200 euro/ora, oltre il nolo del mezzo e le indennità, per manovrare un escavatore New Holland 256B). 
No: è perché all’interno del nostro modello culturale violinista ha rango sociale superiore a ruspista, ossia riscuote una paga simbolica, in termini di riconoscimento e prestigio, di livello superiore. E ciò basta per rovesciare ogni altra considerazione di convenienza, perché i bisogni sociali sono sempre quelli che tendiamo a soddisfare per primi. 
Come ha scritto qualcuno, “La piramide di Maslow si costruisce a partire dalla cima”.

martedì 14 luglio 2020

Individuo e Comunità



Mai quanto in questo periodo di isolamento sociale si era sentito parlare così spesso di Comunità. Eppure la parola Comunità è sempre sospetta, nel sentire comune come nei discorsi dei nostri intellettuali, o aspiranti tali (più che mai negli aspiranti) i quali la schivano accuratamente e con malcelato fastidio. Forse quindi è questo il momento giusto per proporre una riflessione su di essa.
La Comunità è un tema complesso e assai controverso, che è difficile dibattere serenamente all'interno della nostra società borghese perché questa ha costruito una fortezza attorno al suo totem - l'individuo - lungo un periodo di ben quattrocento anni, rendendo sacrileghi anche solo i termini che dovremmo usare. Sono accettate critiche all'egoismo e al narcisismo, che sono forme deviate, degeneri dell'individualismo borghese, ma che questi siano da deprecare siamo facilmente tutti d'accordo; mentre l'individualismo è terribilmente difficile da mettere sotto inchiesta, e precisamente perché - qui nella nostra civiltà - si tratta di un valore. Nella coscienza collettiva borghese (sintesi per liberal-borghese occidentale moderna) esso è avvertito come una conquista irrinunciabile delle civiltà "sviluppate", un elemento fondamentale della virtù, e quindi come un principio da difendere.
Uno dei più noti pensatori contemporanei, Charles Taylor, fa la storia della comparsa e del consolidamento di questo concetto/principio nella società occidentale e nella storia del pensiero, lungo gli ultimi quattro secoli (Il disagio della Modernità, 1991, specialmente i primi due capitoli [1]), partendo da John Locke, passando da Rousseau ed Hegel per arrivare fino a John Rawls.
Taylor evidenzia come quello che lui chiama "ideale dell'autenticità" - riprendendo la definizione da Lionel Trilling (Sincerità e Autenticità, 1971 [2]) che aveva messo a fuoco la genesi del concetto nella storia della letteratura - ossia l'auto-realizzazione del come scopo ultimo dell'uomo, la "libertà" che si auto-determina, con i fini dell'essere umano che scaturiscono dall'interno, senza "condizionamenti" esterni, eccetera, siano i costituenti di un principio positivo, che è addirittura un elemento fondativo della coscienza moderna: un vero e proprio dovere, per l'uomo contemporaneo.
Quello che avverte ancora il dovere di uniformarsi nella condotta a qualche principio esterno, di obbedire a leggi morali che sono poste al di fuori di lui, quello è un "povero di spirito", un "debole", un rappresentante delle deprecate "masse" che si lasciano abbindolare da personalità più forti, o dalle pressioni psicologiche del potere.
Ciò che occorre spiegare è ciò che è peculiare della nostra epoca. Il punto non è soltanto che gli esseri umani sacrificano i loro rapporti, rinunciano ai figli, per inseguire le loro carriere: qualcosa del genere è forse sempre esistito. Il punto è che oggi molti si sentono chiamati a fare questo, sentono che debbono comportarsi così.
Non è che l'ideologia dell'individuo, o ideale dell'autenticità nei termini di Trilling, sia del tutto da buttare via, ha degli aspetti positivi - dice Taylor - in particolare perché responsabilizza; ma procura disagio all'uomo moderno perché lo priva di uno "sfondo morale" intelligibile, e rende precari tutti i suoi significati morali. L'etica infatti è inter-soggettiva per definizione: un'etica che pretenda di essere auto-determinata si rivela fatalmente auto-contraddittoria, quindi vuota di significato.
Taylor teorizza la distinzione tra autenticità della maniera e autenticità della materia, cercando di recuperare per questa via gli orizzonti di significato in una dimensione inter-soggettiva. Ma qui si entra nella riflessione di Taylor. La mia riflessione vuole prendere un'altra via, molto più semplice. Io intendo sostenere che l'ideologia dell'individuo che impera nella nostra società non è sostenibile dal punto di vista economico, e soprattutto che è innaturale dal punto di vista psichico.
Dal punto di vista economico l'analisi è molto semplice: una società dove siano tutti degli irriducibili individualisti è una società destinata all'estinzione; e dove oltre tutto sono anche quasi tutti infelici, eccettuati forse solo quei pochi ricchi che possono vivere bene anche senza alcun vincolo comunitario perché protetti dalla loro posizione economica e sociale privilegiata. Dal punto di vista psichico, invece, l'osservazione richiede uno sforzo maggiore, perché richiede di osservare le nostre strutture interiori più profonde, superando le loro inevitabili resistenze.
Ma cos'è mai questa comunità, dunque? Nella narrazione più superficiale della borghesia egemone, la comunità sarebbe qualcosa che serve alle classi popolari: cioè essa sarebbe uno strumento, utile alla vita dei meno "evoluti": i poveri di spirito, gli "inconsapevoli", quelli che sono rimasti indietro in qualche modo perché "ignoranti" di qualche cosa oppure perché non si sono mai posti domande.
Ciò che qui intendo sostenere è che comunità è invece qualcosa che attiene alla natura umana, e quindi serve a qualsiasi essere umano del pianeta, di ogni tempo e luogo. Ma è meglio dire che fa parte di lui, non che gli serve, come il cuore o il fegato fanno parte di noi e non semplicemente ci servono. Intendo sostenere che esiste una componente innata, nella struttura psichica dell'essere umano, che tende naturalmente verso di essa: una cosa che possiamo chiamare appetitus comunitario, che è quello che vorrei qui provare a mettere a fuoco.
Il verbo servire in questi contesti è fuori luogo e denuncia una concezione strumentale dell'etica: la comunità non è uno strumento che serve all'individuo, se mai l'individuo è lo strumento che serve alla comunità. Ma non è necessaria questa contrapposizione, non serve distruggere l'individuo per affermare la comunità: i gruppi possono esistere a fianco degli individui anche nello stesso spazio concettuale. Pensiamo, per fare un esempio banale, a quello che si fa ordinariamente nel diritto amministrativo, dove le persone fisiche coesistono con le persone giuridiche, anche sullo stesso piano ontologico. Ma per vincere il sospetto serve un lavoro lungo e faticoso, perché ci sono da superare quei bastioni edificati dalla mentalità moderna attorno al suo nucleo, di cui si diceva.

Le comunità sono state riportate in auge, nel dibattito filosofico, nella seconda metà del XIX secolo, grazie all'opera contrapposta e parallela di due grandi pensatori, due padri fondatori della sociologia: Ferdinand Tönnies ed Émile Durkheim. Tönnies ha isolato e circoscritto lo schema concettuale in Gemeinschaft und Gesellschaft (Comunità e Società, 1887)
Mentre nella comunità gli esseri umani restano essenzialmente uniti, nonostante i fattori che li separano, nella società restano essenzialmente separati, nonostante i fattori che li uniscono
In Ferdinand Tönnies in ogni civiltà umana ad una era della comunità (ascendente) segue una era della società (decadente). Anche se forme di "consociazione" comunitarie sono sempre possibili, e perdurano anche nell'era sociale - anzi tendono a risorgere spontaneamente, perché scaturiscono dalle manifestazioni della volontà essenziale, che è parte della natura umana - tornare indietro è impossibile. Secondo questo schema concettuale, una via d'uscita non c'è. La civiltà occidentale è nella fase terminale della sua decadenza, e si estinguerà; entro poche generazioni, qualunque determinazioni possa assumere, che se ne accorga o meno. Non c'è "soluzione" possibile, si può solo prendere atto del corso del processo storico, e lasciare il posto a quelli che verranno.
Sorgerà una nuova era comunitaria, certamente, ma non saremo noi a viverla.
Per queste sue conclusioni Tönnies è associato al rifiuto della modernità, e quindi a forme di primitivismo che non merita e che non gli competono. Il testo è una pietra miliare della sociologia, perché la sua schematizzazione concettuale è di quelle che per generalità e profondità si collocano fuori del tempo. È eterno, perché la sua categorizzazione ha validità universale; ma è "datato", nel lessico e nei riferimenti secondari. È facile attaccare un autore al posto della sua opera dopo 150 anni pescando la frase stonata tra i passaggi marginali, con un argumentum ad hominem. Si è usato un po' vigliaccamente questo metodo contro di lui, e lo si è associato al pensiero reazionario (un po' come Carl Schmitt nella filosofia del diritto: nessuno osa contestarne la grandezza, ma tutti fanno a gara a prenderne le distanze). Il risultato è che citare Tönnies, soprattutto in certi ambienti "liberal", è come citare il Main Kampf di Hitler alle celebrazioni del Kippur. Ma la sua schematizzazione è irrinunciabile (e quel libro deve essere letto).
Durkheim raggiunge le comunità dal lato opposto. Osserva le interazioni tra gli uomini e introduce i fatti sociali come delle unità, "rappresentazioni psichiche collettive" le chiama, che non sono la somma di fattori individuali ma devono essere pensati e osservati in sé. L'oggetto dello studio del sociologo sono quindi i gruppi sociali, che non sono affatto insiemi di individui ma entità a se stanti, dotate di vita propria, come degli esseri viventi composti da esseri viventi.
Lui chiama queste monadi "società", ma secondo lo schema di Tönnies sarebbero più esattamente delle comunità. Esistono una Coscienza Collettiva (altro concetto introdotto da Durkheim) ed una Coscienza Individuale. Le singole Coscienze sono istanze della Coscienza Collettiva, che possiamo pensare come classe genitrice con una metafora informatica, oppure minimo comune denominatore, intersezione di insiemi di valori, o anche "spirito del popolo", con la celebre espressione di Herder.
È interessante notare come i due grandi pensatori lamentarono entrambi la stessa fondamentale incomprensione delle loro opere, e quasi contemporaneamente. Nella prefazione alla seconda edizione di Gemeinschaft und Gesellschaft edita nel 1912, venticinque anni dopo la prima pubblicazione della sua opera maestra, Tönnies protesta che la sua opera sembra essere stata letta e compresa a metà: ha sollevato grandi dibattiti la sua distinzione tra Società e Comunità, mentre l'altra distinzione tra le forme psichiche da cui quelle costruzioni scaturiscono, quella tra volontà essenziale e volontà arbitratria, che pure occupa l'intera seconda metà del saggio, è rimasta inascoltata nell'indifferenza generale.
Qui è sorto il teorema della distinzione tra comunità e società e - inseparabile da questo - il teorema della distinzione tra volontà essenziale e arbitrio. Essi costituiscono due tipi di rapporti sociali - due tipi di configurazione della volontà individuale - da comprendere però da un unico punto di vista.
In quello stesso 1912, Durkheim descrive estesamente la natura e l'origine di queste costruzioni nella sua celebre opera Forme elementari della vita religiosa, ma solo due anni più tardi, nel 1914, si trova a pubblicare un breve nitido saggio, Il dualismo della natura umana,  per lamentare la stessa incomprensione della sua opera centrale che lamentava Tönnies:
Nel tentativo di studiare sociologicamente i fenomeni religiosi, siamo stati indotti a intravedere un modo di spiegare scientificamente una delle più tipiche particolarità della nostra natura. Tuttavia, con nostra grande sorpresa, il principio su cui tale spiegazione si fonda non sembra che sia stato colto dai critici che hanno finora parlato del libro.
Si tratta della stessa lagnanza riguardo alla stessa sordità. La parte della storia che la società borghese non vuole proprio ascoltare non è quella che descrive la vita comunitaria, ma quella che la collega ad una parte essenziale della natura umana. Ma la grande sorpresa di Durkheim non ha ragion d'essere, perché è invitabile che sia così. Anche quando approccia queste opere con sincero interesse e riconoscendone il valore, lo spirito borghese sempre immagina trattarsi di descrizioni di società primitive, che egli può studiare scientificamente con la lente dell'antropologo dall'alto della sua evidente superiorità culturale, come se osservasse un gruppo di scimmie. E quindi osserva le costruzioni fenomeniche, mentre non vede quelle determinazioni originarie della natura umana di cui queste costruzioni scaturiscono.

Nella genesi del concetto c'è poi anche un terzo autore, ancora più celebre, che lo raggiunge per altra via sempre piuomeno nello stesso periodo ma che di solito non viene associato ai primi due, anche se le conclusioni che trae sono soprendentemente simili soprattutto in merito a queste lagnanze sulla "parte mancante", ossia quella parte del concetto che si richiama a una componente universale della natura umana, non compresa dal pubblico perché non vuole sentirla. È Sigmund Freud nel suo Il Disagio della Civiltà, del 1929.
Qui l'ultimo Freud mette sotto indagine proprio il "sentimento religioso" (ossia lo spirito comunitario) inteso come Fons et Origo di ogni bisogno religioso, che pensa - ed è qui la potenza del concetto, per questo i tre autori si piccano tutti e tre di concentrare i loro sforzi su questo punto - come "sentimento immediato, fin da principio rivolto verso questo obiettivo" con le sue stesse parole.
Non quindi come bisogno indotto da costruzioni culturali, ma come qualche cosa di anteriore ad esse, che le produce e determina. È la volontà essenziale di Tönnies, ed è la natura duale di Durkheim, che egli ha intuito indipendentemente da questi, e che correttamente associa ai bisogno religioso universale, ma che non riesce ad associare con la stessa lucidità di Durkheim a quegli stati di coscienza che affondano la loro origine nei bisogni collettivi (di una comunità).

La Comunità nel pensiero occidentale del XX secolo ha quindi tre padri. Essa è sì un insieme di individui, ma fusi in una unità tale che essi non sono più individui ma parti di una entità superiore, una entità che è qualcos'altro rispetto alla somma delle sue parti. Voglio osservare immediatamente che ciò è logicamente concepibile, senza difficoltà; uscendo dai riferimenti filosofici si possono ricordare per esempio le molecole, che sono qualcosa di affatto differente - non solo nelle proprietà, ma proprio nella sostanza - dagli atomi che le compongono.
È difficile definire rigorosamente la comunità, ma credo che per questa, come per tutte le concezioni di base, non debba esserci bisogno di formalismi complessi se non per una sistemazione a posteriori. Le si deve poter raggiungere anche direttamente con l'intelletto, per mezzo di esempi, come cercherò più avanti di fare. Cerco comunque di dare la mia definizione di comunità, e poi di illustrarla con alcuni esempi, cercando di essere più chiaro possibile.
Comunità è un insieme di almeno tre persone (escludiamo il duale) che condividono uno spazio e delle risorse vitali (un habitat), ed hanno interazioni sociali quotidiane del tipo "faccia a faccia" per un tempo sufficientemente lungo.
Questa è la mia definizione, che coincide più o meno con la definizione di gruppo sociale primario della sociologia. Poi però le comunità sono contenute le une nelle altre come matrioske: la definizione si estende anche ai gruppi sociali di ordine superiore, su fino a dove esista una condivisione di spazi e risorse, e si dia necessità di interazione. È una entità distinta rispetto all'insieme degli individui che la compongono. È riconoscibile, e tenuta insieme da vincoli linguistici, culturali, simbolici, economici, talvolta religiosi. Certamente Sparta era una comunità, e certamente il linguaggio fa parte dei vincoli comunitari: come possono avere relazioni sociali quotidiane, persone che non si capiscono. Nel nostro tempo e nei nostri luoghi le comunità più forti sono le comunità di paese e i rioni delle piccole città; le più deboli si hanno nelle grandi città, nei templi borghesi delle grandi metropoli. Le caratteristiche identitarie sopra descritte sono riscontrabili non solo a livello di gruppo primario ma anche ai livelli superiori, fino al livello dello stato nazionale, anche se in misura progressivamente più debole, come è testimoniato da fatto che tutti gli stati nazionali moderni si sono dati una lingua ufficiale, fissata nella legge ordinaria o addirittura nella Costituzione.

Qui è necessaria una digressone importante. Lo stato nazionale fu il tentativo romantico di estendere allo stato il principio identitario tipico delle comunità: una costruzione ardita - eroica, come era nello spirito del tempo - che poi è divenuta reietta in seguito allo scontro tra nazioni del secolo passato e alle sue nefaste conseguenze. Ma è questo il tentativo più importante di far coincidere comunità e società compiuto dalla Modernità. Gli stati nazionali vengono vilipesi perché li si associa ai balordi nazionalismi che hanno insanguinato l'Europa nel secolo scorso, ma non hanno ancora esaurito la loro funzione storica. Si afferma superficialmente che sono un relitto del passato, ma non abbiamo ancora trovato nulla di meglio con cui sostituirli: l'idea di Nazione, come albergava nei cuori di Mazzini o Garibaldi, non servì soltanto a giustificare guerre e soprusi, servì per affermare le libertà dei popoli e soprattutto servì come supporto ideologico della società delle nazioni - cioè della nostra società - ed è tuttora fondamento delle nostre strutture politiche.
Ma la demonizzazione dello stato-nazione è anche, sottotraccia, una conseguenza proprio della sua componente identitaria: la nazione istituisce dei vincoli di tipo comunitario (vincoli impliciti, extra-giuridici) che sono avvertiti dall'individualismo borghese come fastidiosi impicci. La civiltà borghese nella sua narrazione li chiama "limitazioni della libertà individuale", senza rendersi conto che proprio quelle limitazioni sono necessarie per l'affermazione delle libertà politiche. Qualunque forma di governo diversa dalla tirannide presuppone l'esistenza di un nucleo di valori condivisi da parte dei governati, e l'estensione di questo nucleo è proporzionale all'estensione delle libertà politiche che si possono concedere: la democrazia moderna è resa possibile dalla precedente affermazione di una solida identità linguistica, culturale ed etica, che deve coincidere con l'unità territoriale di quella civiltà giuridica. Nell'Europa occidentale come si è sviluppata tra il Congresso di Vienna e il Trattato di Versailles questa unità si costruì intono al concetto di stato nazionale. Una costruzione positiva, "artificiosa" certamente, quanto ogni schema concettuale, ma utile alla formazione di unità che fossero allo stesso tempo sufficientemente estese da potersi difendere, e sufficientemente omogenee da potersi concedere una forma di governo democratica. La diffusa associazione di idee che mette "nazione" accanto a "tirannide" è una sciocchezza: le dittature sono possibili anche senza lo stato nazionale, la democrazia no.
Ma la civiltà borghese - accecata dal suo individualismo totalizzante - tende a squalificare tutte le identità collettive: le pensa come qualcosa di solo negativo, in generale di "arretrato", mentre sono le fondamenta su cui si appoggia il costituzionalismo, e quindi anche la democrazia moderna. Quei politologi che sulla scia di Samuel Huntington osservano come oggi abbiamo a che fare con una serie di stati-civiltà - per tutti Cina ed India - che offrono un nuovo modello di organizzazione politica, mancano di rilevare come la dimensione di Huntington sia troppo estesa perché possa conservare i presupposti dello stato-nazione in termini di omogeneità culturale e linguistica, almeno in Europa. Sono europeista e credo che l'Europa dovrebbe compattarsi andando verso una forma amministrativa federale o confederale, in particolare con l'obiettivo di dotarsi di una difesa comune, e di una politica estera comune. Ma l'Europa non è sufficientemente omogenea da potersi dare una forma statuale, e neppure super-statuale (come gli Stati uniti d'America, che di fatto sono più un super-stato che una federazione di Stati, ma sono facilitati dall'unità linguistica e da una superiore uniformità culturale).
Può darsi che sia possibile in futuro, ma al momento attuale ancora non lo è. Almeno finché questa omogeneità culturale, valoriale e linguistica non sia stata costruita, ma servono diverse generazioni, ammesso che ci si riesca e che si stia andando in questa direzione, la federazione/confederazione europea può solo appoggiarsi sopra un insieme di perduranti legislazioni e sovranità nazionali.
Si deve però anche riconoscere che quando si estende a gruppi sociali di ordine superiore, peggio quando si fonde col concetto di "Stato", la Gemeinshaft può dare origine a mostri.
Il principio identitario delle comunità ha la sua origine naturale nel gruppo sociale primario. L'estensione di questo principio a gruppi di ordine superiore è possibile e produce unità sempre più potenti, ma al contempo sempre più instabili e pericolose. Proprio come avviene con le molecole, per restare nella metafora. Trovandomi tra ultra-libertari che fanno a gara nel superarsi per individualismo mi sono spesso trovato a sostenere tesi comunitariste, attingendo al riferimento aristotelico fondamentale
καὶ ὅτι ὁ ἄνθρωπος φύσει πολιτικὸν ζῷον
ma mi accorgo che quando a sostenerle è qualcun altro mi fanno paura. E l'origine della mia paura non è nel controllo sociale. C'è un altro pericolo, ancora più grande. Mentre l'individualismo della civiltà moderna è almeno nominalmente compatibile con un ecumenismo universale, il comunitarismo non lo è. L'idea di estendere la comunità all'intero genere umano per renderla compatibile con la pace universale, contraddice le sue premesse: il limite della comunità e istintivamente percepito come il confine con l'altro. Senza un'alterità contro cui fare blocco, il sentire comunitario non si dà: l'umanità non è un gruppo. Solo un evento come un attacco alieno potrebbe forse indurla a pensarsi come tale, come l'attacco dei persiani unificava le polis greche. Ma subito dopo Salamina, queste tornavano alla consueta lotta una contro l'altra: il sentimento comunitario conduce dritto alla guerra.
Questo fatto non turbava Aristotele. Per lui era ovvio che la necessità di combattere fosse parte della natura umana, tanto quanto l'essere animale politico. E forse è davvero così. Ma a me, uomo del 2020, l'idea che la pace perpetua sia stata una illusione Kantiana, e che gli uomini per essere tali debbano tornare a scannarsi come hanno sempre fatto, perché questa è la loro natura, mette un poco paura.
Una allerta importante quindi va mantenuta su questo punto: il comunitarismo contiene la guerra. Se si auspica un percorso verso quella direzione, ed il recupero delle identità nazionali come contenitore comune capace di unire le strutture informali dello stato con il sentimento di appartenenza delle comunità, dobbiamo essere consapevoli del pericolo che esse contengono. Per darsi la comunità necessita di una alterità nemica, non sono sufficienti i legami interni e le risorse condivise. Non può esserci una comunità sola, perché a rendere impellenti i simboli identitari agli uomini è precisamente l'esistenza di un altro, cui quell'identità non appartiene.
E se anche così non fosse, è sicuro perlomeno che la comunità è necessariamente ostile alle comunità altre con cui viene in contatto, e nei suoi confini viene per forza con esse in contatto.
Ma torniamo ora alle comunità. Non voglio trattare oltre il concetto di Nazione, né per farne apologia né per attaccarlo, perché ci allontaneremmo troppo dal topic. Preciso solamente che Nazione non è comunità, è il prodotto dell'ibridazione tra comunità e stato moderno; rimando a Federico Chabod, L'idea di Nazione, 1961 [3], e torno a quello che mi interessa.



Come si diceva la comunità offre protezione e sicurezza, ma pretende in cambio abnegazione e sacrifici dai propri membri. Per questo è per essi un pesante fardello: non consente a nessuno di chiamarsene fuori; pretende tributi, e pretende servizio di corvee; pretende che si renda omaggio ai suoi totem, che si officino i suoi riti, che si trasmettano le sue memorie; pretende accettazione esplicita delle sue condizioni di appartenenza, per mezzo dell'assimilazione e della riproduzione dei suoi simboli identitari. Pretende la rinuncia al principio individuale.
Il "comunitarismo" quindi non è affatto attraente, anzi, è una gran rottura di coglioni. Quello che sostengo dunque è che la comunità è sì una scocciatura, ma è una scocciatura di cui si può fare a meno solo se si è ricchi a sufficienza da poterselo permettere.
Il modello culturale borghese è un modello d'élite, per questo rifiuta con disprezzo le istanze comunitarie. Può farlo perché è d'élite, ma quando si massifica - e negli ultimi 30 anni, in occidente, lo si è massificato - emerge drammatica la contraddizione tra l'individualismo borghese, che sentiamo una "conquista" irrinunciabile, e la sua sostenibilità economica. 
Ecco perché affermo che dovremmo riconsiderare questo tratto, perché è quello che più degli altri rende insostenibile il nostro modello culturale. È questo il motivo per cui non facciamo più figli: siamo prigionieri di un modello culturale che rende i figli troppo costosi. Se non lo riconsideriamo ci estingueremo, con noi si estinguerà pure il nostro modello culturale, e con esso le sue belle conquiste, compreso il suo irrinunciabile individualismo. Qui c'è una chiara contraddizione: l'individualismo massificato ha raggiunto quel limite oltre il quale diventa autodistruttivo: deve emendarsi, oppure rassegnarsi a scomparire.
Ma avevo scritto che il concetto di comunità può essere raggiunto anche direttamente, per mezzo di esempi. Per dire cosa sia (per me) comunità, provo quindi a portare degli esempi. Farò due esempi. 
Il primo esempio è tratto dalla mia esperienza di vita (i fatti e le persone citate non sono reali, sono un po' camuffati, ma potrebbero esserlo). 
Poi farò un secondo esempio che tenta di partire dalle origini, la genesi della comunità nelle società primitive alla maniera degli antropologi culturali, per intuire la scaturigine del senso comunitario e con essa la sua ragion d'essere.

Partiamo dal primo. Nacqui in una famiglia mezzo-borghese, con padre avvocato, e madre impiegata proveniente da una famiglia contadina, nella piccola città di Arezzo in Toscana. Mio padre morì quando ero bambino, e la mia famiglia dovette fare i conti con una situazione mutata all'improvviso. Mia madre lavorava in un supermercato, e spesso entrava al lavoro alle 6 o alle 7 del mattino, avevamo solo una nonna che era troppo anziana per accompagnare a scuola me e mio fratello. Quindi mi trovai ad andare a scuola da solo, all'età di dieci anni, tenendo per mano anche mio fratello che ne aveva 8. Oggi raccontando questa storia mi sento dire che "non si potrebbe più fare", perché "il mondo è cambiato", perché "ci sono tanti pericoli", e ovviamente.. "perché ci sono tanti extracomunitari". Questa ultima cosa in verità non si dice mai, perché suona "razzista", ma si pensa, però. E i bambini di otto anni a scuola da soli non ce li manda nessuno. Soffermiamoci un attimo a riflettere. Davvero gli stranieri che sono presenti ad Arezzo (sono molti in effetti) rappresentano un pericolo grave per un bambino di otto anni che va a scuola da solo? Davvero i pericoli per quel bambino sono ora molto maggiori di quelli che potevano esserci trentacinque anni fa? Razionalmente, io credo di no. Credo che se qualche pericolo può esserci, non sia tanto diverso da quelli di ieri. Dunque, è solo "razzismo" quel sentimento che sprigiona una paura che è in realtà tutta irrazionale, insensata, illogica? 
Per rispondere, torno con la memoria a quel tragitto verso la scuola elementare, che facevo tenendo mio fratello per mano. Lo ricordo come se fosse ieri. Usciti dal portone di casa e svoltati a sinistra percorrevamo la via San Niccolò per 50 metri. Dalla finestra del primo piano della casa davanti alla nostra, ci osservava e ci salutava la signora Ferruzzi, una casalinga che alle 8 di mattina sparecchiava la colazione e passava molto tempo affacciata alla finestra. La signora Ferruzzi ci seguiva con lo sguardo fino all'incrocio con via Pellicceria. Svoltata la curva uscivamo dal suo campo visivo, ma entravamo in quello della signora Donata. La Donata, che aveva una merceria nell'angolo con via Fontanella, era una gran fumatrice e quando non aveva clienti nel negozio (quasi sempre) stava in piedi fuori dalla porta a fumare, con ogni stagione. Ci diceva "buongiorno ragazzi!" e ci seguiva con gli occhi finché non ci avvicinavamo alla bottega di frutta e verdura della Mafalda, sessanta metri più avanti. Con uno sguardo di intesa fra lei e la Mafalda avveniva il passaggio di consegne. La Mafalda movimentando le sue cassette di verdura ci osservava fino all'incrocio successivo con via della Minerva. Da qui poteva vederci Pasquale, burbero meccanico di vespe che non salutava nessuno e faceva finta di non conoscerci, ma mentre armeggiava con i motorini in fila fuori dall'officina ci seguiva con la coda dell'occhio fino all'ingresso della scuola. Questo avveniva ogni mattina. Se avessimo deviato, o se qualcuno ci avesse avvicinato, uno di questi dato l'allarme. Io e mio fratello non andavamo davvero a scuola da soli. Ci accompagnavano loro. Ecco, questa era una comunità. La comunità del quartiere storico e popolare di Colcitrone di Arezzo, di 35 anni fa. E questo è un esempio dei servizi che la comunità offre gratuitamente a quelli che ne hanno bisogno, tra i suoi membri. In assenza di essa, questi servizi dovrebbero essere erogati dalle strutture assistenziali della pubblica amministrazione; il che non è possibile, per ragioni di costo e per ovvie ragioni di possibilità pratica. La comunità richiede che ci si conosca, ovviamente che si parli la stessa lingua, non necessariamente che ci si voglia bene, ma sicuramente che ci si "impicci" gli uni degli altri: tutti quelli che vivono in prossimità sono chiamati a farne parte ed a contribuire; non è ammesso che qualcuno se ne infischi, che si tiri indietro, che si "faccia gli affari suoi" con i termini cari all'individualista (borghese), anzi il "farsi gli affari altrui" nella comunità è un dovere.
È tutto questo un male? Per chi può permettersi di farne a meno, forse sì. Se ci fosse stato mio padre ad accompagnarmi a scuola in macchina, quei vicini impiccioni che ti osservano dalla finestra sarebbero stati solo un fastidio. Ma ho avuto modo di vedere, e di capire, a cosa serve, lo spirito comunitario, e per questo dico che chi lo disprezza si sbaglia.

Veniamo al secondo esempio, che ci offre più spunti del primo. Consideriamo una tribù di Uomini di Neanderthal, anno 30.000 a.C. Ora la prendo un po' alla lontana, abbiate pazienza. 
Di fronte a esempi come questo che sto per fare ho sentito obiettare che gli autori che li usano (che spesso sono antropologi culturali) facendo partire le loro analisi da società "primitive" - come le tribù samoane che vengono spesso citate a questo scopo - le renderebbero viziate da un "difetto" di partenza che renderebbe le loro conclusioni inattuali rispetto alla nostra società (cioè alla civiltà borghese). Ciò da lo spunto per smascherare un'altra delle mistificazioni della finzione borghese. L'etichetta di primitivo è uno dei grimaldelli con cui la mistica borghese ha tentato di scardinare il sentire comunitario, negandogli il diritto di esistere. Le considerazioni del sociologo che indaga le relazioni sociali fondamentali traggono sempre spunto dal gruppo sociale primario, perché questo è il luogo della loro origine. E il gruppo sociale primario non è "primitivo", è presente ovunque ci siano almeno tre persone che condividono lo stesso spazio vitale ed hanno relazioni face-to-face per un tempo sufficientemente lungo. Per metterle a fuoco quindi una tribù samoana o anche una tribù di Neanderthal sono più utili della borghesissima società multietnica newyorkese, che finge di non averne bisogno, mentre è il pyramidion issato su un obelisco di sfruttamento che ipocritamente rifiuta di vedere. 
Respinta l'obiezione, torniamo dunque ai nostri Neanderthal che rappresentano un magnifico punto di osservazione. Sono trecento individui: uomini, donne e un po' di bambini e vecchi. Vivono di caccia, e si devono difendere dai predatori, dal freddo, e dai gruppi concorrenti. Questo in sociologia si chiama gruppo sociale primario. È il luogo d'origine dell'Etica. I gruppi sociali poi sono contenuti gli uni negli altri: più gruppi primari formano un clan, molti clan formano una tribù, molte tribù formano un popolo. Il gruppo più grande di tutti lo chiamiamo civiltà. Attenzione: l'Umanità non è un gruppo.
Il gruppo sociale ha ovviamente delle esigenze di gruppo, che si differenziano da quelle individuali, dei singoli soggetti del gruppo stesso. Tra queste, due sono le principali. 
1) Combattere. Il singolo soggetto non ha interesse ad andare "in guerra": nell'ottica individuale, è sempre più conveniente lasciarlo fare agli altri. Ma il gruppo per sopravvivere come gruppo ha bisogno di combattere, e quindi è necessario che i suoi membri siano disposti a farlo, sacrificando anche la propria vita per la sopravvivenza del gruppo, che devono avvertire come bene superiore. 
2) Riprodursi. Il gruppo ha bisogno di essere continuamente rinsanguato. Tutti i membri hanno dunque il dovere di fare ognuno la propria parte per fornire il necessario ricambio, e anche qui, sacrificando la propria individualità, in certi casi anche la propria vita (i neanderthal muoiono di parto) alle superiori esigenze del gruppo.
Faccio notare che tutte le altre esigenze della tribù dei Neanderthal vengono dopo. Anche quelle impellenti come "procacciare il cibo", "trovare l'acqua", "procurare o costruire un rifugio" "difendersi dalle belve" sono secondarie, rispetto alle due principali.
La tribù che non si riproduce infatti si estingue immediatamente, quella che non combatte viene immediatamente annientata. Se invece una volta non si trova il rifugio, si può dormire all'aperto; se la caccia va male, si possono raccogliere radici, o per un giorno digiunare; se si viene sorpresi dalle belve, queste uccideranno solo alcuni individui e poi sazie si ritireranno. I danni sono più contenuti: Il gruppo sopravvive. 
Questo gruppo dell'esempio è composto da trecento uomini di Neanderthal di sesso misto, piccoli e anziani, ed ha alcune esigenze, enumerate sopra. Ci sono esigenze di gruppo, esigenze individuali, ed esigenze di gruppo/individuali. L'esigenza di procurarsi il cibo con la caccia, per esempio, è di gruppo e individuale insieme. L'esigenza di combattere il gruppo dei Sapiens che attacca, è solo esigenza di gruppo. Dal punto di vista individuale, combattere contro i Sapiens è una battaglia persa: hanno archi e frecce, con le nostre clave andiamo a farci infilzare. Sarebbe conveniente quindi per me, singolo Neanderthal di nome Ernesto, restare nella caverna e mandare gli altri. Anche perché tengo famiglia, ho "moglie" e sette piccoli (i Neanderthal facevano molti figli). 
Chi me lo fa fare di lasciarli per andare a immolarmi contro le frecce? Il senso del dovere. 
Cos'è (o cos'era)? Abbiamo presente la letteratura epica? Cosa rende eroico il gesto di Ettore che va a ad affrontare Achille, ben sapendo che non può vincere? Cosa dice ad Andromaca? 
ma de’ Troiani io temo 
Fortemente lo spregio (..) se guerrier codardo 
Mi tenessi in disparte, e della pugna 
Evitassi i cimenti. 
Ah nol consente,
No, questo cor.
Il gruppo sociale, dei Neanderthal come dei Troiani, sopravvive se e solo se nelle coscienze, ossia negli individui che lo compongono, è presente un nucleo di valori che pone l'interesse di gruppo al di sopra dell'interesse individuale, tanto forte da fargli vincere la paura della morte e spingerli al sacrificio di se stessi. Non so nulla dei sistemi di Valori dei Neanderthal, non so come fossero, ma so come non potevano essere: individualisti. Se lo furono mai, lo furono tra le ultime generazioni giusto prima dell'estinzione. Qui ho citato l'Iliade attingendo alla letteratura greca, ossia al sentire di una civiltà tra le più comunitarie che il mondo abbia conosciuto, per cercare di evidenziare cos'era che spingeva gli uomini del passato verso condotte sconvenienti dal punto di vista egoistico. 
Si dirà quindi "sostenibile" un sistema di valori se e solo se può essere esteso a tutti i membri del gruppo, senza condurlo all'estinzione. La nostra civiltà ha perduto consapevolezza della natura sociale degli esseri umani: galleggia in un sistema di valori che - se non è male interpretato - non è in grado di ottemperare alle due esigenze fondamentali ai fini della sopravvivenza dei gruppi sociali, che sono sempre queste due, in ogni tempo e luogo: combattere e riprodursi. Il sistema di valori borghese, ora che si è massificato, ci sta conducendo all'estinzione e dunque per definizione non è sostenibile. 

Tiriamo le somme. Come dalla definizione iniziale, le comunità umane non coincidono con la somma degli individui che le compongono: esse sono "entità organiche", con i termini G.E. Moore, di livello superiore. Accanto all'Identità Collettiva esistono una Volontà Collettiva, un istinto di sopravvivenza collettivo ed un insieme di Doveri Collettivi che tendono a preservare la comunità, servendo le sue esigenze collettive. Queste esigenze collettive talvolta coincidono con quelle individuali, e talvolta possono essere collegate indirettamente a talune esigenze individuali. Ma si danno anche dei casi in cui non collimano con nessuna esigenza individuale, o sono addirittura in contrasto con ogni esigenza individuale. Più ancora del contesto matrimoniale/procreativo ciò è evidente nel contesto bellico. Non esiste nessuna ragione logica, non c'è nessun vantaggio individuale, neppure esteso all'ambito familiare, che possa giustificare la scelta di Ettore di scendere in battaglia contro Achille, per farsi sicuramente ammazzare. Le argomentazioni con cui Andromaca cerca di dissuaderlo sono forti della logica più ferrea. Quelle con cui Ettore spiega la sua scelta tenendo in braccio il figlioletto, invece, di logico non hanno proprio nulla. Eppure il lettore percepisce che sono queste le ragioni superiori. E la loro essenza, la ragione per cui Ettore è considerato da 2500 anni l'Eroe degli Eroi, il prototipo assoluto dell'Eroe, è che in quest'Epica si esemplifica alla perfezione un caso in cui un Uomo sacrifica la sua vita, il futuro della sua famiglia e del suo figlioletto, ad un principio superiore che consiste esclusivamente nell'osservare un dovere collettivo; e questo perfino di fronte alla certezza assoluta che sarà stato invano, perché egli non può che essere ucciso nello scontro con un semidio. Ma non c'è scelta. Nessun calcolo di vantaggi e svantaggi è possibile. Quando la più immensa ed enorme delle tue esigenze individuali viene in contrasto con la più infima ed insignificante delle esigenze collettive, allora l'esigenza individuale si dissolve nel nulla. Tu, singolo individuo, scompari. Re, principe, chiunque tu sia. I tuoi voleri, e desideri, anche i tuoi bisogni e necessità, e la tua libertà ed il tuo futuro, e la tua vita, la vita della tua famiglia e dei tuoi figli, valgono meno di uno sputo in mare. Tu sei niente.



Concludo con una nota di ottimismo, e poi due considerazioni finali. 
La nota di ottimismo si basa sul fatto che l'individualismo moderno è il risultato di uno sforzo di auto-determinazione dell'uomo borghese, che contrasta con alcune determinazioni innate della psiche umana. La civiltà borghese non ha potuto estirpare del tutto gli appetiti comunitari nonostante i suoi sforzi maniacali, perché l'individualismo è innaturale, e può essere sostenibile solo per pochi privilegiati ma soprattutto solo fino a un certo punto oltre al quale la natura umana si ribella. Su questa osservazione riposano le mie tenui speranze che la società borghese possa ancora redimersi. Il riferimento più pertinente per descrivere la caratteristica innata di cui sto parlando qui è la sympathy, o sympatheia, che David Hume descrive nel suo Treatise de Human Nature del 1739. 
E ciò è doppiamente interessante, perché Hume, con Locke ed Adam Smith, è uno dei padri fondatori del sistema di pensiero liberal borghese moderno. Ma, per gusto mio, rispetto agli altri due e ai successivi ha una mente più fine, o se preferite meno intransigente, e non chiude le porte in faccia al sentire comunitario come fanno quelli.
Tuttavia Hume non è un estraneo, è uno di noi. Se il senso comunitario è possibile in Hume, deve esserlo anche per noi. Cioè deve essere possibile ammetterlo, senza rinnegare in toto i postulati etici della civiltà borghese.
Infine le due considerazioni. Una, molto importante, riguarda le condizioni di appartenenza ad una Comunità. Una volta capito cosa siano le comunità e magari una volta riconosciuto che esse non sono del tutto da buttare via, la prima domanda che immediatamente si pone è quali siano le condizioni necessarie e sufficienti per avere accesso alle comunità preesistenti. Questa domanda è decisiva. Le comunità possono essere più o meno inclusive, ma in genere tendono prima facie a cercare di assimilare chi desidera entrare a farne parte, dettando però le proprie condizioni. È la famosa "integrazione" di cui tanto si ciancia ma che male si capisce cosa sarebbe, se non si pensa in termini comunitari. In un vecchio film del 1970, l'uomo chiamato cavallo, un uomo bianco, addirittura un nobiluomo inglese, si trova per accidente catapultato in una tribù Sioux - una comunità strettissima - ma dopo aver sofferto vessazioni iniziali riesce a meritarsi la fiducia ed il rispetto degli indiani, fino a divenire addirittura un capo. Deve faticare, perché la tribù Sioux pretende molto. Pretende che il nuovo arrivato prima di tutto impari la sua lingua, poi fumi il suo calumet, vesta le sue pelli, si pitturi il viso, onori i suoi Totem, rispetti le sue squaw. E naturalmente che dia il suo contributo in battaglia, che dimostri il suo coraggio, che dia prova della sua volontà di essere un Sioux, e per questo lo sottopone a diverse prove, alcune estremamente impegnative, come la celebre prova del dolore che ha fornito l'immagine più evocativa di quel vecchio film. 
Le comunità paesane o cittadine nostrane sono molto meno esigenti di una tribù Sioux, e pretendono assai di meno, ma alcune condizioni fondamentali sono universali e sono sempre le stesse. Oltre alle precondizioni pratiche territoriali di condividere spazio e risorse, alla condizione pratico-tecnica di condividere un linguaggio, alla condizione operativa di dare il proprio contributo attivo; e trascurando tutte le condizioni simboliche, che sono diverse ed hanno un significato profondo ma non costituiscono l'essenza della cosa, direi che quella che le riassume tutte è la condivisione di una concezione del bene. Non è necessario essere nati in un posto o avere la pelle di un certo colore, anche se naturalmente essere nati in quel posto da un vantaggio di partenza (per esempio non c'è bisogno di imparare la lingua). È necessario dimostrare di essere disposti a venire a condividere un nucleo di valori fondamentali, e mostrare di essere animati da una volontà incrollabile di farne parte, superando delle prove.

L'ultima considerazione, pure importante, riguarda l'utilità di questo schema concettuale Tonnesiano, che a volte pure ho sentito mettere in discussione. L'utilità di qualsiasi cosa è sempre relativa a un fine: se il fine è comprendere, la nozione è utile assai. Ma è utile anche se il nostro fine è agire, perché il comprendere è presupposto di ogni agire. Il liberalismo, ma mi piace di più dire il modello culturale borghese, è individualista, quindi anti-comunitario. Il sentire liberal-borghese rifiuta ferocemente le istanze comunitarie. Riducendo la comunità politica a civiltà giuridica, crede che tutto si riduca al "rispettare la legge", e chiama "razzista" quello che avverte l'importanza del vincolo comunitario e desidera che sia preservato. Anche quando si sforza di rivolgere uno sguardo benevolo al sentire comunitario, lo fa sempre nella prospettiva borghese, per cui questo è un sintomo di arretratezza. I temi comunitaristi sono indigesti alla coscienza collettiva borghese: per lo studioso di sociologia magari sono più familiari; ma per i molti allineati al comune sentire qualunque accenno alle istanze comunitarie è avvertito come un sacrilego attacco al dogma dell'individuo, unico depositario di dignità morale; e viene rifiutato con sdegno prima ancora di essere esaminato. I pochi pensatori comunitari sono emarginati dal dibattito (Michael Sandel, Ivan Illich, Alasdair MacIntyre), mentre per esempio John Rawls, con la sua faticosissima arrampicata sugli specchi per teorizzare un individualismo senza limiti, è tenuto in altissima considerazione. In alcuni casi anche perché i comunitari hanno una piuomeno diretta anscendenza religiosa, il che basta per renderli sospetti. Penso per esempio ad Elizabeth Anscombe: relegata tra i dimenticati, ma la sua allieva Philippa Foot ne aveva altissima considerazione.
Ma il tipo progressista-colto egemone si strugge prima di tutto di misurare la distanza che lo separa dalle deprecate "masse" e di dimostrarla: si erge in uno scranno di superiorità, e da lì afferma dallo che queste "non hanno gli strumenti culturali e il coraggio per opporsi alla tirannia della maggioranza del proprio gruppo di appartenenza". Nella sua narrazione opporsi alla tirannia del proprio gruppo di appartenenza sarebbe necessario per la liberazione dell'individuo: chi non ne è capace difetta di strumenti culturali, oppure di coraggio. È la solita prospettiva borghese, quella di Stendhal e di Madame de Staël. Non considera neppure la possibilità che qualcuno possa - per scelta - rinunciare a questa "emancipazione" individuale in piena consapevolezza; e non si insinua in lui il dubbio che ci possa volere del coraggio proprio per fare questa rinuncia. Cioè che quell'individuo che sceglie di sacrificare il suo sé sull'altare dei valori comunitari sia per questo motivo, lui, un Eroe. Come Ettore, che è l'Eroe per antonomasia proprio perché si piega, e non si oppone, alle legge non-scritta del suo gruppo di appartenenza.
Se riuscisse a capire cos'è la comunità politica, come si forma spontaneamente, e a cosa "serve", forse potrebbe imparare a non disprezzarla, ed a spostare l'attenzione sulle condizioni di accesso. Non è che così il problema sia risolto, perché in queste condizioni sta uno scontro valoriale di proporzioni planetarie. Ma almeno ci si solleva dal livello delle invettive - questo sì inutile - e si fa un passettino in avanti. 
 

 

domenica 11 agosto 2019

Da Voltaire a Ventura






Mente profonda capace di pensiero minuto, dotato di vasta erudizione ma con filosofica attitudine al dubbio, soprattutto sempre armato di curiosità sincera e di capacità di autocritica, Raffaele Alberto Ventura è una curiosa sintesi di bon sens borghese e sentimento antiborghese. 
Arrivato da outsider nella cittadella della cultura - dove si è guadagnato il suo spazio passando dalla porta di servizio, attraverso un blog e una pagina Fb - in poco tempo ha fatto parlare di sè e si è guadagnato un posto al sole tra i maître à penser delle nuove generazioni. 
Con pieno merito, perché ha delle doti molto rare. È un attentissimo osservatore che sa vedere il generale nel particolare; ascolta, e poi assorbe e rielabora tutto quello che gli può servire; pensa - e si ripensa - prima di esternare, facendosi le obiezioni da solo e chiarificando così il suo pensiero; ma soprattutto è capace di guardare il presente nella prospettiva secolare: si distacca dal processo storico e lo osserva da lontano, e in questo modo riesce a mettere a fuoco le tendenze epocali dove altri vedono solo i fenomeni di superficie.  
Come tutti i pensatori davvero indipendenti è difficile da collocare: è stato bollato ora come un ultrareazionario, ora come un anarchico di estrema sinistra - e sempre con qualche motivo - ma in lui il desiderio di capire prevale sulla brama di avere ragione, non è mai aggressivo, e questo - assieme forse a un certo savoir faire della sua metà parigina - gli consente di portare dalla sua parte anche i suoi avversari. In questo modo può permettersi di avventurarsi nei territori proibiti, di affrontare cioè quei temi scabrosi dell'attualità più stringente nei quali è quasi impossibile entrare senza assumere una posizione riconoscibile, ossia scelta tra le due o tre già classificate, e disponibili a catalogo. Ventura riesce a non farlo, ma senza rifugiarsi in una ambiguità confortevole. Ha le sue posizioni, che saranno discutibili (poi le discutiamo) ma sono originali, non assimilabili a una scuola una parte politica o corrente di pensiero; ed è per questo motivo probabilmente che viene percepito come avversario un po' da tutti: non si riesce a capire "da che parte" stia, perché non sta da nessuna parte.
Dopo avere esordito nel panorama culturale con il suo primo saggio Teoria della Classe Disagiata, pubblicato con Minimum Fax nel 2017 che aveva scatenato un putiferio di discussioni, ha rilanciato adesso con il suo secondo lavoro, La guerra di Tutti, uscito da poco sempre con Minimum Fax, un saggio che promette di scatenare un putiferio ancora maggiore vista la quantità di spunti che contiene.

Ho avuto il piacere di introdurre la presentazione di questo saggio alla libreria Feltrinelli di Arezzo lo scorso 26 giugno, e di questa occasione ringrazio Raffaele che mi ha dato una scusa per tornare a ripensare questi temi dopo diversi anni, regalandomi anche l'occasione per bere una birra in buona compagnia. Per prepararmi a discuterne mi ero letto il suo libro con la modalità "hard" (due volte in avanti, e poi una volta all'indietro, invertendo l'ordine dei capitoli) la modalità che usavo una volta (prima dei figli, quando avevo più tempo) con quei libri di cui volevo interiorizzare lo spirito. Ho potuto così misurare bene la mole di riflessioni che contiene, che sono davvero tante, forse perfino troppe per un libro solo.


La Guerra di Tutti è un progetto molto più ambizioso della Teoria della Classe Disagiata. Si propone di osservare il presente da punti di vista diversi e punta dritto alle sue criticità e contraddizioni: una sorta di autoanalisi collettiva, che ci trascina tutti nel banco degli imputati, mentre cerca di tenere le fila dei processi storici e di risalire alla loro genesi nella psicologia collettiva.
Ne La Guerra di Tutti ce n'è per tutti: crisi della Verità e crisi delle èlites, crisi del Capitalismo e crisi dell'Occidente, declino della civiltà borghese e risentimento, multiculturalismo e integrazione, deficit di riconoscimento delle minoranze, polarizzazione del conflitto, tensioni latenti e tensioni palesi. Tutti i temi dell'attualità più impellente sono trattati con lucidità e profondità, e questa volta c'è perfino quella pars construens che gli si era rimproverato di aver trascurato nel primo saggio (assieme alle note a piè pagina). Questo libro è una vera miniera di buone intuizioni e spunti di approfondimento - arricchito con i consueti richiami alla cultura pop, che sono il marchio di fabbrica dell'autore e che rendono più scorrevole e divertente la lettura - ed è tanto denso di teorizzazioni da richiedere addirittura un indice di concetti, un'appendice che sta un po' tra il beccatevi questo e l'autoironia.

 


Il saggio comincia dall'attacco al pilastro centrale di ogni Civiltà, di ogni tempo e luogo, la sua Verità.
La Verità di cui si parla qui non è la semantic conception che è stata al centro di infiniti dibattiti da Aristotele a Tarski; è quell'accordo fondamentale su una Visione del Mondo, che rende possibile la concretizzazione di qualunque struttura politica.
Ventura nota come ovunque si stia rapidamente e vistosamente erodendo la fiducia negli esperti e così diviene sempre più precaria la legittimazione del sapere; e come per mezzo della disintermediazione, facilitata dalla rete, si stia inesorabilmente decostruendo tutto il castello della conoscenza umana (conoscenza che è in sé autocontraddittoria, e non può resistere al fuoco concentrico del fact checking su tutti i fianchi) ma ribalta la spiegazione che comunemente si da a questo fenomeno, quella narrazione superficiale secondo cui l'aumentata "complessità" del mondo lo renderebbe non comprensibile per delle "masse" semi-colte composte di "analfabeti funzionali".
È vero infatti che la disintermediazione permette a ognuno di comporre la propria dieta informativa su misura, e questo produce accumulazione disordinata del sapere e acutizza il problema del confirmation bias. Ma le "masse" di ora sono mediamente più colte di quanto non lo fossero in passato, non di meno; la disponibilità immediata di una quantità illimitata di informazioni potenzia, non indebolisce, le loro capacità critiche; mentre non si vede per quale esoterica ragione il mondo di oggi dovrebbe essere più "complesso" di quello del cardinale Richelieu.
Con la rete si da sovraccarico cognitivo, non mancanza di informazioni. Ciò che produce la crisi della Verità non è dunque l'incapacità di comprendere la complessità del mondo, ma proprio un deliberato rifiuto. Rifiuto non solo del messaggio, ma anche del codice e del paradigma di riferimento. E questo rifiuto dell'autorità degli esperti, dei loro titoli e di conseguenza dei meccanismi di legittimazione del sapere a sua volta è conseguenza del fatto che questi sono percepiti come i sacerdoti di una classe privilegiata, che produce e giustifica l'esclusione delle minoranze.
Ciò produce lo sgretolamento della Verità condivisa in tante Verità individuali (Ventura la chiama uberizzazione della Verità). Ma il consenso sulla Verità ha una funzione sociale:
Come possono coesistere degli individui se non condividono la stessa Verità? La Verità è una finzione necessaria.
A margine di ciò, poi, si può subito aggiungere che nella rete il fraintendimento o la mancata comprensione non sono affatto conseguenza della stupidità o dell'ignoranza come spesso si pensa. Siamo tutti esposti al rischio di fraintendimento, perché condividiamo lo stesso spazio pubblico ma non condividiamo i linguaggi e i riferimenti culturali.  
È impossibile stabilire con certezza il registro retorico di un enunciato pubblicato in rete [1].
Questa osservazione andrebbe tenuta sempre presente quando si analizzano cause e conseguenze di processi che hanno nella rete il loro momento: la rete ha cambiato il mondo soprattutto perché lo ha reso più piccolo. Per mezzo di essa persone che vivono dalla parte opposta del pianeta si trovano in un certo qual modo a stretto contatto quotidianamente, ma senza avere avuto il modo e il tempo di accordarsi su quell'insieme di segni, accenti, toni e simboli che formano il metalinguaggio, e sono scambiabili solo attraverso relazioni dirette face to face.

Da qui passa a osservare le modalità con cui lo stato tenta oggi di neutralizzare i micropoteri per costruire uno spazio di coesistenza pacifica. Di fronte ai tumulti di piazza la strategia comune delle grandi democrazie occidentali consiste nel "lasciar fare": si costruisce una sorta di set cinematografico e si consente alla violenza di sfogarsi in quel perimetro circoscritto, dove il danno è contenuto (la governamentalità di Focault, [2]). Così si permette al meccanismo della catarsi di aristotelica memoria di innescarsi, attraverso un rito collettivo analogo nei fini a quello che lo stagirita attribuiva alla tragedia greca, ma si offre anche un modello da imitare: si produce cioè un residuo mimetico, che con la cassa di risonanza disponibile a buon mercato nell'era dei media è un effetto collaterale tale che rischia di rendere il rimedio peggiore del male. Si renderà infatti presto necessaria una nuova rappresentazione, più grande della precedente. Il rito infatti deve ripetersi periodicamente, per essere efficace, ed ogni volta con intensità maggiore; ma non è mai completamente indolore: i danni sono contenuti, ma non nullificati. E poi nella Tragedia greca c'era il finale tragico a impaurire il pubblico, scongiurando il pericolo del residuo mimetico. Nelle rappresentazioni organizzate nel presente per offrire possibilità di sfogo alla rabbia e alle pulsioni, invece, questo elemento disinfettante non può esserci, quindi il rito è per forza incompleto. Con questo metodo si rinvia continuamente il momento di fare i conti col reale, ma quel momento prima o poi arriva: oltre un certo limite non funziona più e anzi produce più danni che benefici. Tendiamo sempre a sottovalutare gli effetti reali delle rappresentazioni.
La conclusione oltre la conclusione - che aggiungo io - è che la teoria politica deve sbrigarsi a elaborare dei metodi alternativi, se vuole evitare di dover tornare alla repressione dura: questa considerazione può essere lo spunto di partenza per un altro intero volume.
Una terza importante intuizione riguarda la tanto decantata integrazione delle minoranze, che Ventura correttamente chiama assimilazione, smascherando la finzione che si cela dietro questa non-soluzione, venduta ovunque come una facile e scontata panacea capace di risolvere tutti i mali.
Ventura riconosce come la resistenza all'assimilazione (che chiama de-assimilazione o dissimilazione, nel suo indice dei concetti) che produce il rigurgito identitario ed il ritorno ai gruppi di provenienza da parte di immigrati di seconda e terza generazione, si manifesta quando questi si accorgono che lasciarsi assimilare per loro in realtà è un pessimo affare. Chi azzarda questo passo infatti si trova poi fatalmente nella terra di nessuno, apolide, solo, rifiutato dal suo gruppo di provenienza ma non accettato da quello di destinazione, che dovrebbe accoglierlo come suo membro mentre al massimo lo tollera o comunque lo relega ai margini della vita politica. Quindi monta il suo risentimento e sceglie il ritorno. E nelle periferie delle metropoli europee si ammassano migliaia di giovani immigrati di seconda o terza generazione, cittadini europei, nati e cresciuti in Europa ma carichi di odio e risentimento che sono pronti a rivolgere contro la società che li ospita. Ventura ha in mente le banlieue di Parigi ma la Molenbeek di Bruxelles ne offre un esempio ancora migliore. Questo fenomeno è ben noto ed è stato riconosciuto da molti, non è un intuizione originale, ma Ventura ha il merito di formularla in una modalità chiara che ne evidenzia la contraddittorietà: quando parliamo di "integrazione" infatti noi raramente siamo consapevoli che stiamo proponendo una "soluzione" che è vantaggiosa solo per noi, nella prospettiva di quello che dovrebbe integrarsi è una presa per i fondelli.
In questa osservazione si innesta anche una articolata riflessione parallela sul riconoscimento, uno dei temi più dibattuti nella filosofia contemporanea. Introdotto nella Fenomenologia dello Spirito da Hegel e riportato in auge negli ultimi decenni soprattutto grazie a Axel Honneth e alla scuola di Francoforte, il riconoscimento fin dall'inizio è oggetto di riflessioni dell'autore, che già lo aveva trattato nella Teoria della Classe Disagiata. E fin da quel primo saggio sottolineava come l'auto-realizzazione, il prestigio, la visibilità, siano beni strutturalmente scarsi: non è possibile democratizzare un bene posizionale, il riconoscimento di alcuni è sempre ottenuto a scapito del riconoscimento di altri, e quindi se è possibile, entro certi limiti, distribuire a tutti dei beni materiali (soprattutto quei beni che possono essere prodotti in serie) non è possibile distribuire a tutti questo tipo di beni immateriali, che non possono essere prodotti in serie ed il cui valore è dato proprio dalla scarsità relativa.
Prima ancora di raggiungere i limiti economici dello sviluppo, abbiamo raggiunto i suoi limiti sociali
Per gusto mio, è qui che in questo suo secondo saggio Ventura ci offre la riflessione più importante, e più significativa. Egli recupera la distinzione tra amor proprio e amore di sé che fu di Rousseau, secondo cui il primo "riguarda solo noi, ed è contento quando i nostri bisogni sono soddisfatti" mentre il secondo "si confronta, e non è mai contento perché esige che anche gli altri ci preferiscano a loro stessi, il che è impossibile" e arriva a riconoscere che il problema sta li dentro: nell'amor proprio dell'uomo moderno, in qualche determinante psicologica contenuta all'interno del nostro modello culturale di riferimento. Bisognerà operare chirurgicamente dentro la Coscienza Collettiva della civiltà occidentale per rimuovere o almeno riformare questo elemento tossico, che le appartiene da diversi secoli ormai, e che la rende intrinsecamente conflittuale:
Non ci potrà essere decrescita che non sia prima di tutto decrescita culturale: un massiccio cantiere di deprogrammazione dell'amor proprio.
Nelle mie solitarie riflessioni avevo raggiunto una conclusione molto simile, con la differenza che riconoscevo l'elemento tossico più nell'individualismo della società moderna liberal-borghese che in questo rousseauiano amor proprio; ma accolgo senza riserve questa posizione, che non è incompatibile con la mia anzi la completa.
Faccio questa nota personale perché sono sempre più convinto che il tema dell'individualismo - e del suo complementare nello spazio dei concetti, il comunitarismo - sia molto più affine al pensiero di Raffaele Alberto Ventura di quanto egli stesso non pensi.
Gli ho posto la domanda durante la presentazione del saggio a Firenze, chiedendogli in particolare se e quanto i (pochi) pensatori comunitari fossero tra i suoi punti di riferimento, e citando Michael Sandel, Charles Taylor e ovviamente Ferdinand Tönnies. Avevo dimenticato Raymond Boudon, che con il suo attacco alla Teoria della scelta razionale affonda un colpo potente contro uno dei pilastri del pensiero liberal-borghese; e trascurato Ivan Illich, che pure era stato una delle fonti di ispirazione della Teoria della Classe Disagiata. Mi ha confermato che Taylor lo è (infatti è più volte citato ne La Guerra di Tutti) mentre comprensibilmente ha preso le distanze da Tönnies, che appartiene al XIX secolo ma che soprattutto è percepito come "datato", e un po' come bandiera del pensiero reazionario.
Anche durante uno scambio di opinioni successivo durante la sua visita ad Arezzo, come in alcune interviste riscontrabili in rete, Ventura ha confermato di non essere gran che interessato alle comunità e del comunitarismo. Io credo che lo sia senza saperlo. Lasciando eventuali approfondimenti di questo tema (che non è presente ne La Guerra di Tutti, se non marginalmente) a discussioni future, cito dal suo libro questo passaggio:
La modernità è infettata fin dall'origine dalla logica perversa dell'amor proprio: non solo perché ha fatto della concorrenza la sua legge, ma perché ha sistematicamente distrutto quei dispositivi sociali e corpi intermedi (a partire dalle religioni) che servivano a regolare l'ambizione individuale.
Ecco, siamo a un millimetro di distanza: sostituendo amor proprio con individualismo e religioni con comunità, questa proposizione diventa una perfetta professione di comunitarismo.
Ed è ancora più esatta. Ma è molto difficile dirsi comunitaristi, perché tutto ciò che è comunitario è ostracizzato e disprezzato dalla civiltà borghese (con borghese intendo liberal-borghese-occidentale-moderna, cioè noi), che col suo trincerarsi in un individualismo totalizzante ha creduto di potersi liberare da certi fastidiosi impicci, travestendo da virtù il suo disimpegno.
I pochi pensatori comunitari sono emarginati dal dibattito (un altro è Alasdair MacIntyre), mentre per esempio John Rawls, con la sua faticosissima arrampicata sugli specchi per teorizzare un individualismo senza limiti, è tenuto in altissima considerazione.
In alcuni casi anche perché i pochi comunitari hanno una piuomeno diretta ascendenza religiosa, il che basta per renderli sospetti (penso per esempio a Elizabeth Anscombe).
Non c'è più spazio per il comunitario in questo mondo borghese: è deriso, schernito, emarginato.
Lo spirito borghese rifiuta con sdegno ogni critica all'individualismo, che avverte come un sacrilego attacco alle libertà individuali (cioè al dogma dell'individuo) e respinge le istanze comunitarie; riduce, sistematicamente, la comunità politica a comunità giuridica, e quest'ultima ad uno sfumato, ineffabile e minimale set di regolette da rispettare: meno ancora di uno Stato, uno "stato", tra virgolette. E così rende ossequio al principio centrale della coscienza collettiva borghese, che riconosce diritti solo alla persona, ed il privilegio di esistere solo all'individuo.
A chi avesse voglia di riflettere sul tema suggerisco di pensare la comunità come il luogo dello spirito comunitario, e lo spirito comunitario come quel sentimento che lega gli individui che condividono uno spazio, delle risorse, ed hanno interazioni sociali quotidiane.
La comunità è appena qualcosa di più del gruppo sociale primario della sociologia, ma molto di meno dello stato nazionale moderno. Sta tra la polis greca e la contrada del palio di Siena.
Non è qualcosa che si deve "istituire", è qualcosa che si forma da sé, ma ciò che più conta: è qualcosa di cui le classi popolari hanno bisogno, perché garantisce loro protezione e sicurezza.
Per questo motivo tutto ciò che la intacca, tutto ciò che la mette in pericolo, è avvertito da queste come un pericolo esiziale. Per loro lo è.
Quella ripulsa istintiva delle classi popolari contro una immigrazione di massa, che la coscienza collettiva borghese denuncia come una reazione irrazionale di spiriti involuti, e chiama "razzismo" (con una biased word) è invece profondamente razionale. Ha una ragione, un senso, un perché.
L'individualismo borghese è una posa da signori, e tutti noi naturalmente siamo benestanti e istruiti membri della civiltà borghese. In quanto tali non abbiamo bisogno della comunità, o almeno non tanto quanto ne hanno le classi popolari. Ma noi possiamo permetterci il lusso di farne a meno perché godiamo della protezione offerta dal capitale (capitale economico e capitale culturale: chi sa per che si tende a considerare tale solo il primo, mentre il secondo sarebbe un titolo di merito. Come se la cultura non fosse un privilegio) e poi dalla posizione sociale.  
Della comunità si può fare a meno solo se si è ricchi.
Se la civiltà borghese pretende di essere universale o di diventarlo, allora deve fare i conti con questa sua contraddizione: deve rendersi sostenibile, e per fare questo deve mettere sotto inchiesta il suo individualismo, che è il suo tratto più intrinsecamente e irrimediabilmente elitario.
Ma tutto questo è OT. Il filo del discorso di Ventura segue un'altra strada: dopo avere denunciato l'amor proprio dell'uomo moderno come elemento distruttivo del suo spirito, nella seconda parte del saggio dalle turbolenze in corso nel presente passa a osservare la nascita dello Stato Moderno, per costruire il suo parallelo storico, in particolare con la Francia nel periodo compreso tra l'editto di Nantes e l'editto di Fointainebleu. Avrebbe potuto guardare alla Storia Inglese dall'Atto di Supremazia di Enrico VIII fino alla rivoluzione del Cromwell [3], calandosi così proprio nell'Inghilterra di Hobbes, primo teorico della guerra di tutti contro tutti, e riferimento citato nel titolo del libro. Ma lo Stato assolutistico moderno nella sua versione più rigida si concretizzò soprattutto in Francia (secondo la celebre interpretazione di Otto Hintze, a causa della presenza di un nemico esterno organizzato, più che di frizioni inter-religiose interne) ed è la Francia il paese di Ventura. Ma soprattutto la Francia è il paese europeo che più degli altri ha vissuto in questo inizio millennio le conseguenze clamorose di una disgregazione del corpo sociale e della sua frammentazione in gruppi contrapposti come non si conosceva nel continente da almeno cinquecento anni; esplosa con la rivolta delle Banlieue del 2005, e culminata negli attentati alla sede di Charlie Hebdo nel gennaio 2015, negli attentati di Parigi del novembre dello stesso anno (con la strage del Bataclan confrontata nell'iconografia alla strage di Wassy del 1562, in un parallelo di immagini di straordinaria efficacia) e nella strage di Nizza nel luglio 2016.
Avendo individuato e analizzato la crisi della verità nella società occidentale, osserva come questa crisi della Verità coincida con la dissoluzione di quell'accordo di fondo su cui si reggeva la costruzione dello stato moderno. In tutte le sue incarnazioni concrete, democratiche o meno che fossero, lo stato sempre presuppone l'esistenza di un nucleo di valori e principi condivisi da parte dei governati, nucleo che non può non esserci, perché in assenza di essi semplicemente non funziona.
L'idea che tutti i conflitti possano essere composti per mezzo del principio di maggioranza è una pellegrina illusione, cui tendiamo ingenuamente a credere perché siamo abituati - appunto dal tempo di Hobbes - a società non-conflittuali, dove questo tacito presupposto è sempre verificato ed i dissensi sono circoscritti alle sfere periferiche della vita politica.
Nel periodo delle guerre di religione agli albori dell'età moderna, quando questo presupposto non era verificato affatto, la vita politica era funestata da una tensione latente e continua tra gruppi contrapposti che sfociava periodicamente in esplosioni di violenza, e che rendeva necessari dei dispositivi di sicurezza di cui non c'è stato più bisogno solo quando l'uniformità minimale tra i governati non è stata ricostruita (con il cuius regio eius religio, con le dragonnades e infine con le deportazioni di Luigi XIV, nota mia).
Ventura osserva come tutti questi dispositivi fossero resi allora necessari da quella mancanza di una visione del mondo condivisa capace di neutralizzare preventivamente i conflitti latenti tra gruppi non assimilabili, e come sia sciocco definirli ora "arretrati" o criticarli, da parte di contemporanei che vivono all'interno di società pacificate attorno ad una nuova Verità.
Manca forse di rilevare come gli stessi dispositivi fossero tuttavia insufficienti, ma in questo secondo saggio vuole proporre anche una pars construens: non può dire questo, perché punta al loro recupero - in una forma attualizzata - per tentare di neutralizzare i conflitti tra gruppi che si manifestano di nuovo nella società europea ora che col multiculturalismo viene meno di nuovo quella verità condivisa, elemento pacificatore in grado di creare i presupposti che per quattrocento anni resero possibile lo stato moderno.
La guerra di tutti non è uno stato primordiale, è quello che rimane quando la società è privata delle sue strutture politiche.
È esattamente così. Il riferimento hobbesiano serve per dare una cornice coerente ad una serie di intuizioni e osservazioni su quanto sta succedendo - e probabilmente succederà ancora nei prossimi decenni - in seno alla Civiltà Occidentale.
L'Europa evolve in una direzione che la rende sempre più simile a quella del tempo delle guerre di religione, la società regredisce a moltitudine prepolitica, e questa circostanza restituisce attualità alle azioni politiche di Enrico IV come alle elaborazioni teoriche di Thomas Hobbes. 
Ma se le preoccupazioni che muovevano Hobbes sono le stesse che muovono Ventura, lo stesso non si può dire delle conclusioni. Hobbes concepiva lo stato moderno (necessariamente assoluto nel 1651, in ragione di quanto scritto sopra) proprio come antidoto definitivo a quelle tensioni. Ventura vuole evitare di dirsi hobbesiano - forse anche per non essere dipinto un altra volta come un reazionario - e quindi opta per il recupero dei dispositivi di sicurezza che le contingenze emergenziali avevano suggerito alla prassi politica di Enrico IV.
Tra quei dispositivi era, tra gli altri, la concezione originaria del laicismo come "estromissione della religione dallo spazio pubblico", concezione ben diversa da quella che due secoli più tardi ci avrebbe insegnato Voltaire col suo Dizionario Filosofico, che qui assume come paradigma della sua strategia.
Le bestemmie sono atti linguistici, performativi, che come tutti gli atti hanno conseguenze concrete, dice Ventura, ed in quanto tali possono essere sanzionabili. E ci ricorda che durante il periodo delle guerre di religione un intero genere teatrale, il Mistero, scomparve perché dopo che alcuni attori erano stati trucidati in Inghilterra in seguito a una rappresentazione, un decreto regio aveva proibito di inserire riferimenti religiosi nelle rappresentazioni. E che la figura dell'autore, fino ad allora pressoché sconosciuta, comparve perché del testo che si rappresentava doveva ora esserci un responsabile: qualcuno da punire, se a causa di frasi o riferimenti sconsiderati messi sulla scena si fossero innescati dei tumulti. Senza quel decreto forse Shakespeare non sarebbe mai esistito.
Ecco: dopo aver condiviso in pieno tutte le premesse e tutte le considerazioni precedenti, solo su questa parte finale del saggio (ma è la parte decisiva) devo manifestare, per quel che vale, il mio dissenso da Ventura.


Da membro convinto della classe dei bestemmiatori, con Pippo rivendico il valore etico della bestemmia, la libertà di bestemmiare come momento topico della libertà di espressione, e la libertà di espressione precisamente come "valore non negoziabile"; nella piena consapevolezza di tutte le implicazioni di questa posizione.
E per mezzo di questo esempio rivendico l'assolutismo etico - usando di proposito questo termine intransigente - come posizione di fondo in filosofia morale, e come unica posizione possibile.
Pur riconoscendo il pericolo che si cela dietro di essi ed il fatto che questi possono condurre, anzi forse conducono necessariamente, in certe circostanze, alla guerra di tutti, io credo che gli assoluti etici non solo si possono, ma si debbono dare, perché in assenza di essi la civiltà si dissolverebbe in una galassia di individui svuotati della loro coscienza - inumani, con un termine preso a prestito dall'universo Marvel - privi di qualunque tessuto connettivo altro dalle strutture formali di un superficiale e continuamente mobile sistema giuridico.
Quello che rimarrebbe è ancora meno della moltitudine prepolitica di Hobbes. È un magma informe di soggetti disconnessi, disincarnati, che prima di essere indesiderabile e/o moralmente inaccettabile, è impossibile, semplicemente perché contraddice la natura umana.
E qui il richiamo che lancio è al pensatore che fu termine ad quem dell'empirismo inglese iniziato con Hobbes, David Hume, e al suo Treatise of Human Nature pubblicato duecento anni dopo Il Leviatano.
La prima ragione per cui rifiuto il relativismo e tutte queste soluzioni di compromesso quindi non è tanto il fatto che le ritenga moralmente inaccettabili. È perché le ritengo impossibili. Non possono funzionare. Con un lavoro di certosina pazienza noi possiamo decostruire la conoscenza, in ogni sua forma. Anche la conoscenza scientifica, perfino la matematica e la logica vanno inesorabilmente in crisi se attaccate alle fondamenta con il fuoco concentrico delle verifiche. Non c'è bisogno di Heidegger che introduce lo storicismo nell'ontologia, possono essere messe in crisi con i loro stessi strumenti: un teorema di incompletezza dimostra che non siamo in grado si dimostrare nulla; un paradosso di Russell ci costringe a riconoscere che la teoria degli insiemi era in realtà una teoria ingenua degli insiemi [4]. Allora con grande fatica elaboriamo una teoria assiomatica degli insiemi, e ce la teniamo per buona finché non arriverà qualcuno a trovare la crepa pure lì. Crepa che c'è sicuramente, perché una crepa c'è sempre: la conoscenza umana non può che essere imperfetta, poiché sono imperfetti gli esseri umani.
C'è una cosa però che non siamo in grado di decostruire: è la nostra Coscienza. Ne possiamo anestetizzare forse alcune parti, ma giammai per intero e soprattutto solo temporaneamente. Essa tornerà fuori a decidere la nostra condotta, anche sopra di noi e contro di noi, perché è più forte sia dell'intelletto che della volontà. Qualsiasi tentativo di relativizzare i valori deve fare i conti con questo limite strutturale della psiche dell'essere umano. Se limite vogliamo chiamarlo.
C'è una contraddizione insanabile qui: rifiutando ogni compromesso, è chiaro che non c'è nessuna soluzione possibile.
Poffarbacco Topolino, si va verso la guerra di tutti, dunque?
Credo proprio di sì, Pippo. Pazienza.

Per concludere torniamo all'esempio della blasfemia. La "bestemmia" e la libertà di bestemmiare sono solo apparentemente una questione marginale di poca importanza. Non è un caso che proprio attorno a questo diritto/non diritto che il conflitto in corso si sia manifestato con gli scontri più sanguinosi, con il massacro dell'Hebdo, ma ancora più chiaramente con la precedente lunga serie di eventi scatenata delle vignette su Maometto pubblicate in Danimarca nel 2005 [5].
Perché è quando finalmente riesce a proibire di "bestemmiare", di criticare il suo libro sacro o il suo profeta, o di analizzare criticamente la sua figura storica, o di negare l'esistenza di Dio, è allora che la religione ha occupato lo spazio pubblico.
Anche senza bisogno di accogliere suggerimenti come questi la Francia è già scesa a compromessi con la bandiera della laicità, di cui fu un tempo primo vessillifero. Macron nel 2018 ha proposto l'istituzione del grande Imam di Francia, un progetto di riforma che prevede la formazione degli imam, il pagamento dei loro stipendi ed il finanziamento dei luoghi di culto da parte della Republique. Questo progetto ha come fine la rimozione delle catene di influenza straniera nel paese, è razionale, e può essere all'atto pratico la soluzione più sensata; ma si tratta di un compromesso epocale con l'anima laica della Francia, che già adesso non è più il paese di Voltaire.
Non è una esagerazione. La tragedia di Voltaire Le Fanatisme ou Mahomet le Prophète, che fu rappresentata per la prima volta a Parigi nel 1742, non si potrebbe probabilmente più rappresentare, nella Parigi di Ventura del 2019.


Allora domandiamo: possiamo fare una vignetta satirica su Platini? Platini non è un Dio, si obietterà. Beh, io conosco diverse persone per le quali lo è.
Manitu è un Dio e non ci sono dubbi. Ma una vignetta su Manitu si può fare, perché gli indiani Sioux sono ormai poco numerosi, e perlopiù sprovvisti di Kalashnikov.
Il punto è che se ogni gruppo, al limite ogni individuo, può collocare ciò che desidera nell'insieme degli enti per lui sacri, e quindi al di sopra della possibilità di essere oggetto di satira (e dunque, inevitabilmente, anche di critica o relativizzazione) allora non c'è nulla che possa essere oggetto di satira, critica o relativizzazione. La realizzazione pratica del suggerimento di Ventura imporrebbe una assegnazione arbitraria di pesi diversi a diversi enti del mondo, che sarebbero più o meno sacri sulla base del numero di soggetti che li ritengono tali, e dell'intensità di violenza di cui questi sono capaci. Se si sanzionano gli atti linguistici sulla base dei loro effetti attesi, allora diventano più meritevoli di protezione i sentimenti di quei gruppi più determinati a esercitare violenza. 
Un secondo punto è che dalla divinità personificata il divieto di critica immediatamente passa al libro, e dal libro al suo contenuto. Non c'è limite all'estensione dell'insieme degli oggetti sacri, e con esso ai soprusi che si possono perpetrare inserendo arbitrariamente in quell'insieme tutto ciò che si vuole sottrarre alla possibilità di essere discusso, o anche solo analizzato criticamente.
Se voglio scrivere che il Corano è un brutto libro, posso farlo o mi debbo censurare? È possibile operare una esegesi di quel testo ed una storicizzazione del profeta senza essere tacciati di blasfemia?
Un terzo punto è che le autorità preposte a sanzionare gli atti linguistici dovrebbero essere preventivamente istruite. La Madonna tecnicamente non è una divinità: un insulto alla Madonna si deve far rientrare comunque tra le bestemmie, magari a un livello inferiore? E se io insulto la santissima trinità, merito tre contravvenzioni o ne basta una sola? I vigili urbani dovrebbero fare un corso di teologia dogmatica? Oppure si dovrebbe chiedere alla conferenza episcopale di stilare una lista di frasi e parole proibite con relativi punteggi di gravità, una tabella bestemmie-sanzioni da consegnare alle forze di polizia e agli uffici giudiziari?
Certo, questi comici paradossi potrebbero essere forse superati con un po' di buonsenso, ma la commistione tra legge ordinaria e leggi di dio, espulsa dalla possibilità di esistere da secoli, tornerebbe ad avere quartiere anche nelle società occidentali.
In una società multiculturale che ospitasse non due o tre, ma decine o centinaia di gruppi differenti, sarebbe impossibile per qualsiasi autorità districarsi in un pantheon di divinità potenzialmente infinito, che tra l'altro può benissimo ospitare più volte lo stesso idolo con valenze diverse attribuitegli da gruppi diversi (Gesù Cristo è un profeta per l'islam, Calvino è un eretico per i cattolici, e così via). Si renderebbe necessario separare le sfere giuridiche ed i rispettivi interpreti, proprio come avvenne in Francia dopo l'editto di Nantes, almeno fino al 1623 (si pretendeva di essere giudicati da tribunali composti per metà da propri correligionari) e come Ventura indirettamente ha ipotizzato avvalorando, anche se con certe riserve, l'ipotesi immaginifica (e un po' farneticante) della "panarchia" avanzata da altri [6].
Io non lo so mica dove potrebbe condurre una simile deriva, ma so che tutto questo sarebbe comunque insufficiente. Tutti quei dispositivi che furono utilizzati per smorzare il conflitto durante il secolo XVII servirono solo a sedare la febbre, non curarono il male. Quello fu estirpato solamente quando la Francia ebbe recuperato una uniformità nel sentire sufficientemente solida da poterli finalmente abbandonare. Anche Ventura è ben consapevole che per pacificare la società
quello che sembra imperativo è ristabilire il consenso su una rappresentazione del mondo eventualmente approssimativa, ma perlomeno condivisa, sulla quale fondare la legittimità delle istituzioni democratiche
ma le visioni del mondo non sono tutte uguali, e non sono equivalenti. Trovare un accordo minimo purchessia potrebbe bastare forse a smorzare il conflitto e a scongiurare la guerra di tutti, ma evitare questa guerra non è l'unica esigenza che abbiamo, e non è neppure la più importante.
Da ogni visione del mondo, infatti, da ogni Verità, da ogni insieme di concezioni, e di valori, e di modi di pensare, scaturisce un tipo di uomo, e per ogni tipo di uomo si ha un tipo di società.
La società moderna, per definizione, è la società degli uomini moderni, e gli uomini moderni sono quelli che condividono una, peculiare, visione del mondo, che della modernità è la matrice.
Rinunciare a immanentizzare l'eschaton della modernità equivale a rinunciare alla modernità, e quindi tornare indietro di cinquecento anni. E se non esistono valori non negoziabili, allora non esiste una conquista di civiltà che non possa essere messa in discussione, o rinunciata del tutto, qualora le convenienze del momento lo suggeriscano.
Credo invece che combattere per riaffermare queste conquiste quando vengano attaccate sia un dovere morale che abbiamo, nei confronti di tutti quegli uomini che hanno versato il loro sangue per lasciarcele in consegna (per ultimi gli eroi dell'Hebdo, che non hanno ricevuto nemmeno un monumento commemorativo per timore di altre rappresaglie), e nei confronti di tutti quegli altri che verranno, cui le dovremo consegnare intatte.
Barattarle con un obiettivo a breve termine di quieto vivere può essere la tattica più pragmatica, utile per "neutralizzare" o almeno procrastinare la guerra di tutti. Ma non ne abbiamo il diritto.
Siamo d'accordo che le guerre di tutti, le guerre civili a bassa intensità, come le guerre civili classiche e come le guerre convenzionali, siano qualcosa di orribile da scongiurare in ogni modo.
Ma quando ormai ci siamo dentro, l'unico modo per uscirne è combattere.
E allora il compito degli intellettuali - delle avanguardie come si diceva una volta, e proprio per questo motivo - sarebbe quello di affinare le armi per la battaglia culturale che si profila.
Ventura non si tira indietro: affronta il problema centrale inquadrandolo perfettamente, accettando anche tutte le sue complessità e scartando le finte-soluzioni di comodo fornite dal politicamente corretto. Si spinge addirittura fino a indicare una possibile strada per neutralizzare il conflitto, e la linea di azione che suggerisce è lucida, razionale, pragmatica, magnificamente argomentata.
Forse è perfino praticabile. 
Solo che quello che ci offre, più che un arma da guerra, è il piano per una ritirata.



Chi vuol esser mosca umana?

La leggenda delle “inclinazioni naturali”, che sarebbero delle caratteristiche innate di un bambino che lo portano ad essere più o meno voc...