domenica 11 agosto 2019

Da Voltaire a Ventura






Mente profonda capace di pensiero minuto, dotato di vasta erudizione ma con filosofica attitudine al dubbio, soprattutto sempre armato di curiosità sincera e di capacità di autocritica, Raffaele Alberto Ventura è una curiosa sintesi di bon sens borghese e sentimento antiborghese. 
Arrivato da outsider nella cittadella della cultura - dove si è guadagnato il suo spazio passando dalla porta di servizio, attraverso un blog e una pagina Fb - in poco tempo ha fatto parlare di sè e si è guadagnato un posto al sole tra i maître à penser delle nuove generazioni. 
Con pieno merito, perché ha delle doti molto rare. È un attentissimo osservatore che sa vedere il generale nel particolare; ascolta, e poi assorbe e rielabora tutto quello che gli può servire; pensa - e si ripensa - prima di esternare, facendosi le obiezioni da solo e chiarificando così il suo pensiero; ma soprattutto è capace di guardare il presente nella prospettiva secolare: si distacca dal processo storico e lo osserva da lontano, e in questo modo riesce a mettere a fuoco le tendenze epocali dove altri vedono solo i fenomeni di superficie.  
Come tutti i pensatori davvero indipendenti è difficile da collocare: è stato bollato ora come un ultrareazionario, ora come un anarchico di estrema sinistra - e sempre con qualche motivo - ma in lui il desiderio di capire prevale sulla brama di avere ragione, non è mai aggressivo, e questo - assieme forse a un certo savoir faire della sua metà parigina - gli consente di portare dalla sua parte anche i suoi avversari. In questo modo può permettersi di avventurarsi nei territori proibiti, di affrontare cioè quei temi scabrosi dell'attualità più stringente nei quali è quasi impossibile entrare senza assumere una posizione riconoscibile, ossia scelta tra le due o tre già classificate, e disponibili a catalogo. Ventura riesce a non farlo, ma senza rifugiarsi in una ambiguità confortevole. Ha le sue posizioni, che saranno discutibili (poi le discutiamo) ma sono originali, non assimilabili a una scuola una parte politica o corrente di pensiero; ed è per questo motivo probabilmente che viene percepito come avversario un po' da tutti: non si riesce a capire "da che parte" stia, perché non sta da nessuna parte.
Dopo avere esordito nel panorama culturale con il suo primo saggio Teoria della Classe Disagiata, pubblicato con Minimum Fax nel 2017 che aveva scatenato un putiferio di discussioni, ha rilanciato adesso con il suo secondo lavoro, La guerra di Tutti, uscito da poco sempre con Minimum Fax, un saggio che promette di scatenare un putiferio ancora maggiore vista la quantità di spunti che contiene.

Ho avuto il piacere di introdurre la presentazione di questo saggio alla libreria Feltrinelli di Arezzo lo scorso 26 giugno, e di questa occasione ringrazio Raffaele che mi ha dato una scusa per tornare a ripensare questi temi dopo diversi anni, regalandomi anche l'occasione per bere una birra in buona compagnia. Per prepararmi a discuterne mi ero letto il suo libro con la modalità "hard" (due volte in avanti, e poi una volta all'indietro, invertendo l'ordine dei capitoli) la modalità che usavo una volta (prima dei figli, quando avevo più tempo) con quei libri di cui volevo interiorizzare lo spirito. Ho potuto così misurare bene la mole di riflessioni che contiene, che sono davvero tante, forse perfino troppe per un libro solo.


La Guerra di Tutti è un progetto molto più ambizioso della Teoria della Classe Disagiata. Si propone di osservare il presente da punti di vista diversi e punta dritto alle sue criticità e contraddizioni: una sorta di autoanalisi collettiva, che ci trascina tutti nel banco degli imputati, mentre cerca di tenere le fila dei processi storici e di risalire alla loro genesi nella psicologia collettiva.
Ne La Guerra di Tutti ce n'è per tutti: crisi della Verità e crisi delle èlites, crisi del Capitalismo e crisi dell'Occidente, declino della civiltà borghese e risentimento, multiculturalismo e integrazione, deficit di riconoscimento delle minoranze, polarizzazione del conflitto, tensioni latenti e tensioni palesi. Tutti i temi dell'attualità più impellente sono trattati con lucidità e profondità, e questa volta c'è perfino quella pars construens che gli si era rimproverato di aver trascurato nel primo saggio (assieme alle note a piè pagina). Questo libro è una vera miniera di buone intuizioni e spunti di approfondimento - arricchito con i consueti richiami alla cultura pop, che sono il marchio di fabbrica dell'autore e che rendono più scorrevole e divertente la lettura - ed è tanto denso di teorizzazioni da richiedere addirittura un indice di concetti, un'appendice che sta un po' tra il beccatevi questo e l'autoironia.

 


Il saggio comincia dall'attacco al pilastro centrale di ogni Civiltà, di ogni tempo e luogo, la sua Verità.
La Verità di cui si parla qui non è la semantic conception che è stata al centro di infiniti dibattiti da Aristotele a Tarski; è quell'accordo fondamentale su una Visione del Mondo, che rende possibile la concretizzazione di qualunque struttura politica.
Ventura nota come ovunque si stia rapidamente e vistosamente erodendo la fiducia negli esperti e così diviene sempre più precaria la legittimazione del sapere; e come per mezzo della disintermediazione, facilitata dalla rete, si stia inesorabilmente decostruendo tutto il castello della conoscenza umana (conoscenza che è in sé autocontraddittoria, e non può resistere al fuoco concentrico del fact checking su tutti i fianchi) ma ribalta la spiegazione che comunemente si da a questo fenomeno, quella narrazione superficiale secondo cui l'aumentata "complessità" del mondo lo renderebbe non comprensibile per delle "masse" semi-colte composte di "analfabeti funzionali".
È vero infatti che la disintermediazione permette a ognuno di comporre la propria dieta informativa su misura, e questo produce accumulazione disordinata del sapere e acutizza il problema del confirmation bias. Ma le "masse" di ora sono mediamente più colte di quanto non lo fossero in passato, non di meno; la disponibilità immediata di una quantità illimitata di informazioni potenzia, non indebolisce, le loro capacità critiche; mentre non si vede per quale esoterica ragione il mondo di oggi dovrebbe essere più "complesso" di quello del cardinale Richelieu.
Con la rete si da sovraccarico cognitivo, non mancanza di informazioni. Ciò che produce la crisi della Verità non è dunque l'incapacità di comprendere la complessità del mondo, ma proprio un deliberato rifiuto. Rifiuto non solo del messaggio, ma anche del codice e del paradigma di riferimento. E questo rifiuto dell'autorità degli esperti, dei loro titoli e di conseguenza dei meccanismi di legittimazione del sapere a sua volta è conseguenza del fatto che questi sono percepiti come i sacerdoti di una classe privilegiata, che produce e giustifica l'esclusione delle minoranze.
Ciò produce lo sgretolamento della Verità condivisa in tante Verità individuali (Ventura la chiama uberizzazione della Verità). Ma il consenso sulla Verità ha una funzione sociale:
Come possono coesistere degli individui se non condividono la stessa Verità? La Verità è una finzione necessaria.
A margine di ciò, poi, si può subito aggiungere che nella rete il fraintendimento o la mancata comprensione non sono affatto conseguenza della stupidità o dell'ignoranza come spesso si pensa. Siamo tutti esposti al rischio di fraintendimento, perché condividiamo lo stesso spazio pubblico ma non condividiamo i linguaggi e i riferimenti culturali.  
È impossibile stabilire con certezza il registro retorico di un enunciato pubblicato in rete [1].
Questa osservazione andrebbe tenuta sempre presente quando si analizzano cause e conseguenze di processi che hanno nella rete il loro momento: la rete ha cambiato il mondo soprattutto perché lo ha reso più piccolo. Per mezzo di essa persone che vivono dalla parte opposta del pianeta si trovano in un certo qual modo a stretto contatto quotidianamente, ma senza avere avuto il modo e il tempo di accordarsi su quell'insieme di segni, accenti, toni e simboli che formano il metalinguaggio, e sono scambiabili solo attraverso relazioni dirette face to face.

Da qui passa a osservare le modalità con cui lo stato tenta oggi di neutralizzare i micropoteri per costruire uno spazio di coesistenza pacifica. Di fronte ai tumulti di piazza la strategia comune delle grandi democrazie occidentali consiste nel "lasciar fare": si costruisce una sorta di set cinematografico e si consente alla violenza di sfogarsi in quel perimetro circoscritto, dove il danno è contenuto (la governamentalità di Focault, [2]). Così si permette al meccanismo della catarsi di aristotelica memoria di innescarsi, attraverso un rito collettivo analogo nei fini a quello che lo stagirita attribuiva alla tragedia greca, ma si offre anche un modello da imitare: si produce cioè un residuo mimetico, che con la cassa di risonanza disponibile a buon mercato nell'era dei media è un effetto collaterale tale che rischia di rendere il rimedio peggiore del male. Si renderà infatti presto necessaria una nuova rappresentazione, più grande della precedente. Il rito infatti deve ripetersi periodicamente, per essere efficace, ed ogni volta con intensità maggiore; ma non è mai completamente indolore: i danni sono contenuti, ma non nullificati. E poi nella Tragedia greca c'era il finale tragico a impaurire il pubblico, scongiurando il pericolo del residuo mimetico. Nelle rappresentazioni organizzate nel presente per offrire possibilità di sfogo alla rabbia e alle pulsioni, invece, questo elemento disinfettante non può esserci, quindi il rito è per forza incompleto. Con questo metodo si rinvia continuamente il momento di fare i conti col reale, ma quel momento prima o poi arriva: oltre un certo limite non funziona più e anzi produce più danni che benefici. Tendiamo sempre a sottovalutare gli effetti reali delle rappresentazioni.
La conclusione oltre la conclusione - che aggiungo io - è che la teoria politica deve sbrigarsi a elaborare dei metodi alternativi, se vuole evitare di dover tornare alla repressione dura: questa considerazione può essere lo spunto di partenza per un altro intero volume.
Una terza importante intuizione riguarda la tanto decantata integrazione delle minoranze, che Ventura correttamente chiama assimilazione, smascherando la finzione che si cela dietro questa non-soluzione, venduta ovunque come una facile e scontata panacea capace di risolvere tutti i mali.
Ventura riconosce come la resistenza all'assimilazione (che chiama de-assimilazione o dissimilazione, nel suo indice dei concetti) che produce il rigurgito identitario ed il ritorno ai gruppi di provenienza da parte di immigrati di seconda e terza generazione, si manifesta quando questi si accorgono che lasciarsi assimilare per loro in realtà è un pessimo affare. Chi azzarda questo passo infatti si trova poi fatalmente nella terra di nessuno, apolide, solo, rifiutato dal suo gruppo di provenienza ma non accettato da quello di destinazione, che dovrebbe accoglierlo come suo membro mentre al massimo lo tollera o comunque lo relega ai margini della vita politica. Quindi monta il suo risentimento e sceglie il ritorno. E nelle periferie delle metropoli europee si ammassano migliaia di giovani immigrati di seconda o terza generazione, cittadini europei, nati e cresciuti in Europa ma carichi di odio e risentimento che sono pronti a rivolgere contro la società che li ospita. Ventura ha in mente le banlieue di Parigi ma la Molenbeek di Bruxelles ne offre un esempio ancora migliore. Questo fenomeno è ben noto ed è stato riconosciuto da molti, non è un intuizione originale, ma Ventura ha il merito di formularla in una modalità chiara che ne evidenzia la contraddittorietà: quando parliamo di "integrazione" infatti noi raramente siamo consapevoli che stiamo proponendo una "soluzione" che è vantaggiosa solo per noi, nella prospettiva di quello che dovrebbe integrarsi è una presa per i fondelli.
In questa osservazione si innesta anche una articolata riflessione parallela sul riconoscimento, uno dei temi più dibattuti nella filosofia contemporanea. Introdotto nella Fenomenologia dello Spirito da Hegel e riportato in auge negli ultimi decenni soprattutto grazie a Axel Honneth e alla scuola di Francoforte, il riconoscimento fin dall'inizio è oggetto di riflessioni dell'autore, che già lo aveva trattato nella Teoria della Classe Disagiata. E fin da quel primo saggio sottolineava come l'auto-realizzazione, il prestigio, la visibilità, siano beni strutturalmente scarsi: non è possibile democratizzare un bene posizionale, il riconoscimento di alcuni è sempre ottenuto a scapito del riconoscimento di altri, e quindi se è possibile, entro certi limiti, distribuire a tutti dei beni materiali (soprattutto quei beni che possono essere prodotti in serie) non è possibile distribuire a tutti questo tipo di beni immateriali, che non possono essere prodotti in serie ed il cui valore è dato proprio dalla scarsità relativa.
Prima ancora di raggiungere i limiti economici dello sviluppo, abbiamo raggiunto i suoi limiti sociali
Per gusto mio, è qui che in questo suo secondo saggio Ventura ci offre la riflessione più importante, e più significativa. Egli recupera la distinzione tra amor proprio e amore di sé che fu di Rousseau, secondo cui il primo "riguarda solo noi, ed è contento quando i nostri bisogni sono soddisfatti" mentre il secondo "si confronta, e non è mai contento perché esige che anche gli altri ci preferiscano a loro stessi, il che è impossibile" e arriva a riconoscere che il problema sta li dentro: nell'amor proprio dell'uomo moderno, in qualche determinante psicologica contenuta all'interno del nostro modello culturale di riferimento. Bisognerà operare chirurgicamente dentro la Coscienza Collettiva della civiltà occidentale per rimuovere o almeno riformare questo elemento tossico, che le appartiene da diversi secoli ormai, e che la rende intrinsecamente conflittuale:
Non ci potrà essere decrescita che non sia prima di tutto decrescita culturale: un massiccio cantiere di deprogrammazione dell'amor proprio.
Nelle mie solitarie riflessioni avevo raggiunto una conclusione molto simile, con la differenza che riconoscevo l'elemento tossico più nell'individualismo della società moderna liberal-borghese che in questo rousseauiano amor proprio; ma accolgo senza riserve questa posizione, che non è incompatibile con la mia anzi la completa.
Faccio questa nota personale perché sono sempre più convinto che il tema dell'individualismo - e del suo complementare nello spazio dei concetti, il comunitarismo - sia molto più affine al pensiero di Raffaele Alberto Ventura di quanto egli stesso non pensi.
Gli ho posto la domanda durante la presentazione del saggio a Firenze, chiedendogli in particolare se e quanto i (pochi) pensatori comunitari fossero tra i suoi punti di riferimento, e citando Michael Sandel, Charles Taylor e ovviamente Ferdinand Tönnies. Avevo dimenticato Raymond Boudon, che con il suo attacco alla Teoria della scelta razionale affonda un colpo potente contro uno dei pilastri del pensiero liberal-borghese; e trascurato Ivan Illich, che pure era stato una delle fonti di ispirazione della Teoria della Classe Disagiata. Mi ha confermato che Taylor lo è (infatti è più volte citato ne La Guerra di Tutti) mentre comprensibilmente ha preso le distanze da Tönnies, che appartiene al XIX secolo ma che soprattutto è percepito come "datato", e un po' come bandiera del pensiero reazionario.
Anche durante uno scambio di opinioni successivo durante la sua visita ad Arezzo, come in alcune interviste riscontrabili in rete, Ventura ha confermato di non essere gran che interessato alle comunità e del comunitarismo. Io credo che lo sia senza saperlo. Lasciando eventuali approfondimenti di questo tema (che non è presente ne La Guerra di Tutti, se non marginalmente) a discussioni future, cito dal suo libro questo passaggio:
La modernità è infettata fin dall'origine dalla logica perversa dell'amor proprio: non solo perché ha fatto della concorrenza la sua legge, ma perché ha sistematicamente distrutto quei dispositivi sociali e corpi intermedi (a partire dalle religioni) che servivano a regolare l'ambizione individuale.
Ecco, siamo a un millimetro di distanza: sostituendo amor proprio con individualismo e religioni con comunità, questa proposizione diventa una perfetta professione di comunitarismo.
Ed è ancora più esatta. Ma è molto difficile dirsi comunitaristi, perché tutto ciò che è comunitario è ostracizzato e disprezzato dalla civiltà borghese (con borghese intendo liberal-borghese-occidentale-moderna, cioè noi), che col suo trincerarsi in un individualismo totalizzante ha creduto di potersi liberare da certi fastidiosi impicci, travestendo da virtù il suo disimpegno.
I pochi pensatori comunitari sono emarginati dal dibattito (un altro è Alasdair MacIntyre), mentre per esempio John Rawls, con la sua faticosissima arrampicata sugli specchi per teorizzare un individualismo senza limiti, è tenuto in altissima considerazione.
In alcuni casi anche perché i pochi comunitari hanno una piuomeno diretta ascendenza religiosa, il che basta per renderli sospetti (penso per esempio a Elizabeth Anscombe).
Non c'è più spazio per il comunitario in questo mondo borghese: è deriso, schernito, emarginato.
Lo spirito borghese rifiuta con sdegno ogni critica all'individualismo, che avverte come un sacrilego attacco alle libertà individuali (cioè al dogma dell'individuo) e respinge le istanze comunitarie; riduce, sistematicamente, la comunità politica a comunità giuridica, e quest'ultima ad uno sfumato, ineffabile e minimale set di regolette da rispettare: meno ancora di uno Stato, uno "stato", tra virgolette. E così rende ossequio al principio centrale della coscienza collettiva borghese, che riconosce diritti solo alla persona, ed il privilegio di esistere solo all'individuo.
A chi avesse voglia di riflettere sul tema suggerisco di pensare la comunità come il luogo dello spirito comunitario, e lo spirito comunitario come quel sentimento che lega gli individui che condividono uno spazio, delle risorse, ed hanno interazioni sociali quotidiane.
La comunità è appena qualcosa di più del gruppo sociale primario della sociologia, ma molto di meno dello stato nazionale moderno. Sta tra la polis greca e la contrada del palio di Siena.
Non è qualcosa che si deve "istituire", è qualcosa che si forma da sé, ma ciò che più conta: è qualcosa di cui le classi popolari hanno bisogno, perché garantisce loro protezione e sicurezza.
Per questo motivo tutto ciò che la intacca, tutto ciò che la mette in pericolo, è avvertito da queste come un pericolo esiziale. Per loro lo è.
Quella ripulsa istintiva delle classi popolari contro una immigrazione di massa, che la coscienza collettiva borghese denuncia come una reazione irrazionale di spiriti involuti, e chiama "razzismo" (con una biased word) è invece profondamente razionale. Ha una ragione, un senso, un perché.
L'individualismo borghese è una posa da signori, e tutti noi naturalmente siamo benestanti e istruiti membri della civiltà borghese. In quanto tali non abbiamo bisogno della comunità, o almeno non tanto quanto ne hanno le classi popolari. Ma noi possiamo permetterci il lusso di farne a meno perché godiamo della protezione offerta dal capitale (capitale economico e capitale culturale: chi sa per che si tende a considerare tale solo il primo, mentre il secondo sarebbe un titolo di merito. Come se la cultura non fosse un privilegio) e poi dalla posizione sociale.  
Della comunità si può fare a meno solo se si è ricchi.
Se la civiltà borghese pretende di essere universale o di diventarlo, allora deve fare i conti con questa sua contraddizione: deve rendersi sostenibile, e per fare questo deve mettere sotto inchiesta il suo individualismo, che è il suo tratto più intrinsecamente e irrimediabilmente elitario.
Ma tutto questo è OT. Il filo del discorso di Ventura segue un'altra strada: dopo avere denunciato l'amor proprio dell'uomo moderno come elemento distruttivo del suo spirito, nella seconda parte del saggio dalle turbolenze in corso nel presente passa a osservare la nascita dello Stato Moderno, per costruire il suo parallelo storico, in particolare con la Francia nel periodo compreso tra l'editto di Nantes e l'editto di Fointainebleu. Avrebbe potuto guardare alla Storia Inglese dall'Atto di Supremazia di Enrico VIII fino alla rivoluzione del Cromwell [3], calandosi così proprio nell'Inghilterra di Hobbes, primo teorico della guerra di tutti contro tutti, e riferimento citato nel titolo del libro. Ma lo Stato assolutistico moderno nella sua versione più rigida si concretizzò soprattutto in Francia (secondo la celebre interpretazione di Otto Hintze, a causa della presenza di un nemico esterno organizzato, più che di frizioni inter-religiose interne) ed è la Francia il paese di Ventura. Ma soprattutto la Francia è il paese europeo che più degli altri ha vissuto in questo inizio millennio le conseguenze clamorose di una disgregazione del corpo sociale e della sua frammentazione in gruppi contrapposti come non si conosceva nel continente da almeno cinquecento anni; esplosa con la rivolta delle Banlieue del 2005, e culminata negli attentati alla sede di Charlie Hebdo nel gennaio 2015, negli attentati di Parigi del novembre dello stesso anno (con la strage del Bataclan confrontata nell'iconografia alla strage di Wassy del 1562, in un parallelo di immagini di straordinaria efficacia) e nella strage di Nizza nel luglio 2016.
Avendo individuato e analizzato la crisi della verità nella società occidentale, osserva come questa crisi della Verità coincida con la dissoluzione di quell'accordo di fondo su cui si reggeva la costruzione dello stato moderno. In tutte le sue incarnazioni concrete, democratiche o meno che fossero, lo stato sempre presuppone l'esistenza di un nucleo di valori e principi condivisi da parte dei governati, nucleo che non può non esserci, perché in assenza di essi semplicemente non funziona.
L'idea che tutti i conflitti possano essere composti per mezzo del principio di maggioranza è una pellegrina illusione, cui tendiamo ingenuamente a credere perché siamo abituati - appunto dal tempo di Hobbes - a società non-conflittuali, dove questo tacito presupposto è sempre verificato ed i dissensi sono circoscritti alle sfere periferiche della vita politica.
Nel periodo delle guerre di religione agli albori dell'età moderna, quando questo presupposto non era verificato affatto, la vita politica era funestata da una tensione latente e continua tra gruppi contrapposti che sfociava periodicamente in esplosioni di violenza, e che rendeva necessari dei dispositivi di sicurezza di cui non c'è stato più bisogno solo quando l'uniformità minimale tra i governati non è stata ricostruita (con il cuius regio eius religio, con le dragonnades e infine con le deportazioni di Luigi XIV, nota mia).
Ventura osserva come tutti questi dispositivi fossero resi allora necessari da quella mancanza di una visione del mondo condivisa capace di neutralizzare preventivamente i conflitti latenti tra gruppi non assimilabili, e come sia sciocco definirli ora "arretrati" o criticarli, da parte di contemporanei che vivono all'interno di società pacificate attorno ad una nuova Verità.
Manca forse di rilevare come gli stessi dispositivi fossero tuttavia insufficienti, ma in questo secondo saggio vuole proporre anche una pars construens: non può dire questo, perché punta al loro recupero - in una forma attualizzata - per tentare di neutralizzare i conflitti tra gruppi che si manifestano di nuovo nella società europea ora che col multiculturalismo viene meno di nuovo quella verità condivisa, elemento pacificatore in grado di creare i presupposti che per quattrocento anni resero possibile lo stato moderno.
La guerra di tutti non è uno stato primordiale, è quello che rimane quando la società è privata delle sue strutture politiche.
È esattamente così. Il riferimento hobbesiano serve per dare una cornice coerente ad una serie di intuizioni e osservazioni su quanto sta succedendo - e probabilmente succederà ancora nei prossimi decenni - in seno alla Civiltà Occidentale.
L'Europa evolve in una direzione che la rende sempre più simile a quella del tempo delle guerre di religione, la società regredisce a moltitudine prepolitica, e questa circostanza restituisce attualità alle azioni politiche di Enrico IV come alle elaborazioni teoriche di Thomas Hobbes. 
Ma se le preoccupazioni che muovevano Hobbes sono le stesse che muovono Ventura, lo stesso non si può dire delle conclusioni. Hobbes concepiva lo stato moderno (necessariamente assoluto nel 1651, in ragione di quanto scritto sopra) proprio come antidoto definitivo a quelle tensioni. Ventura vuole evitare di dirsi hobbesiano - forse anche per non essere dipinto un altra volta come un reazionario - e quindi opta per il recupero dei dispositivi di sicurezza che le contingenze emergenziali avevano suggerito alla prassi politica di Enrico IV.
Tra quei dispositivi era, tra gli altri, la concezione originaria del laicismo come "estromissione della religione dallo spazio pubblico", concezione ben diversa da quella che due secoli più tardi ci avrebbe insegnato Voltaire col suo Dizionario Filosofico, che qui assume come paradigma della sua strategia.
Le bestemmie sono atti linguistici, performativi, che come tutti gli atti hanno conseguenze concrete, dice Ventura, ed in quanto tali possono essere sanzionabili. E ci ricorda che durante il periodo delle guerre di religione un intero genere teatrale, il Mistero, scomparve perché dopo che alcuni attori erano stati trucidati in Inghilterra in seguito a una rappresentazione, un decreto regio aveva proibito di inserire riferimenti religiosi nelle rappresentazioni. E che la figura dell'autore, fino ad allora pressoché sconosciuta, comparve perché del testo che si rappresentava doveva ora esserci un responsabile: qualcuno da punire, se a causa di frasi o riferimenti sconsiderati messi sulla scena si fossero innescati dei tumulti. Senza quel decreto forse Shakespeare non sarebbe mai esistito.
Ecco: dopo aver condiviso in pieno tutte le premesse e tutte le considerazioni precedenti, solo su questa parte finale del saggio (ma è la parte decisiva) devo manifestare, per quel che vale, il mio dissenso da Ventura.


Da membro convinto della classe dei bestemmiatori, con Pippo rivendico il valore etico della bestemmia, la libertà di bestemmiare come momento topico della libertà di espressione, e la libertà di espressione precisamente come "valore non negoziabile"; nella piena consapevolezza di tutte le implicazioni di questa posizione.
E per mezzo di questo esempio rivendico l'assolutismo etico - usando di proposito questo termine intransigente - come posizione di fondo in filosofia morale, e come unica posizione possibile.
Pur riconoscendo il pericolo che si cela dietro di essi ed il fatto che questi possono condurre, anzi forse conducono necessariamente, in certe circostanze, alla guerra di tutti, io credo che gli assoluti etici non solo si possono, ma si debbono dare, perché in assenza di essi la civiltà si dissolverebbe in una galassia di individui svuotati della loro coscienza - inumani, con un termine preso a prestito dall'universo Marvel - privi di qualunque tessuto connettivo altro dalle strutture formali di un superficiale e continuamente mobile sistema giuridico.
Quello che rimarrebbe è ancora meno della moltitudine prepolitica di Hobbes. È un magma informe di soggetti disconnessi, disincarnati, che prima di essere indesiderabile e/o moralmente inaccettabile, è impossibile, semplicemente perché contraddice la natura umana.
E qui il richiamo che lancio è al pensatore che fu termine ad quem dell'empirismo inglese iniziato con Hobbes, David Hume, e al suo Treatise of Human Nature pubblicato duecento anni dopo Il Leviatano.
La prima ragione per cui rifiuto il relativismo e tutte queste soluzioni di compromesso quindi non è tanto il fatto che le ritenga moralmente inaccettabili. È perché le ritengo impossibili. Non possono funzionare. Con un lavoro di certosina pazienza noi possiamo decostruire la conoscenza, in ogni sua forma. Anche la conoscenza scientifica, perfino la matematica e la logica vanno inesorabilmente in crisi se attaccate alle fondamenta con il fuoco concentrico delle verifiche. Non c'è bisogno di Heidegger che introduce lo storicismo nell'ontologia, possono essere messe in crisi con i loro stessi strumenti: un teorema di incompletezza dimostra che non siamo in grado si dimostrare nulla; un paradosso di Russell ci costringe a riconoscere che la teoria degli insiemi era in realtà una teoria ingenua degli insiemi [4]. Allora con grande fatica elaboriamo una teoria assiomatica degli insiemi, e ce la teniamo per buona finché non arriverà qualcuno a trovare la crepa pure lì. Crepa che c'è sicuramente, perché una crepa c'è sempre: la conoscenza umana non può che essere imperfetta, poiché sono imperfetti gli esseri umani.
C'è una cosa però che non siamo in grado di decostruire: è la nostra Coscienza. Ne possiamo anestetizzare forse alcune parti, ma giammai per intero e soprattutto solo temporaneamente. Essa tornerà fuori a decidere la nostra condotta, anche sopra di noi e contro di noi, perché è più forte sia dell'intelletto che della volontà. Qualsiasi tentativo di relativizzare i valori deve fare i conti con questo limite strutturale della psiche dell'essere umano. Se limite vogliamo chiamarlo.
C'è una contraddizione insanabile qui: rifiutando ogni compromesso, è chiaro che non c'è nessuna soluzione possibile.
Poffarbacco Topolino, si va verso la guerra di tutti, dunque?
Credo proprio di sì, Pippo. Pazienza.

Per concludere torniamo all'esempio della blasfemia. La "bestemmia" e la libertà di bestemmiare sono solo apparentemente una questione marginale di poca importanza. Non è un caso che proprio attorno a questo diritto/non diritto che il conflitto in corso si sia manifestato con gli scontri più sanguinosi, con il massacro dell'Hebdo, ma ancora più chiaramente con la precedente lunga serie di eventi scatenata delle vignette su Maometto pubblicate in Danimarca nel 2005 [5].
Perché è quando finalmente riesce a proibire di "bestemmiare", di criticare il suo libro sacro o il suo profeta, o di analizzare criticamente la sua figura storica, o di negare l'esistenza di Dio, è allora che la religione ha occupato lo spazio pubblico.
Anche senza bisogno di accogliere suggerimenti come questi la Francia è già scesa a compromessi con la bandiera della laicità, di cui fu un tempo primo vessillifero. Macron nel 2018 ha proposto l'istituzione del grande Imam di Francia, un progetto di riforma che prevede la formazione degli imam, il pagamento dei loro stipendi ed il finanziamento dei luoghi di culto da parte della Republique. Questo progetto ha come fine la rimozione delle catene di influenza straniera nel paese, è razionale, e può essere all'atto pratico la soluzione più sensata; ma si tratta di un compromesso epocale con l'anima laica della Francia, che già adesso non è più il paese di Voltaire.
Non è una esagerazione. La tragedia di Voltaire Le Fanatisme ou Mahomet le Prophète, che fu rappresentata per la prima volta a Parigi nel 1742, non si potrebbe probabilmente più rappresentare, nella Parigi di Ventura del 2019.


Allora domandiamo: possiamo fare una vignetta satirica su Platini? Platini non è un Dio, si obietterà. Beh, io conosco diverse persone per le quali lo è.
Manitu è un Dio e non ci sono dubbi. Ma una vignetta su Manitu si può fare, perché gli indiani Sioux sono ormai poco numerosi, e perlopiù sprovvisti di Kalashnikov.
Il punto è che se ogni gruppo, al limite ogni individuo, può collocare ciò che desidera nell'insieme degli enti per lui sacri, e quindi al di sopra della possibilità di essere oggetto di satira (e dunque, inevitabilmente, anche di critica o relativizzazione) allora non c'è nulla che possa essere oggetto di satira, critica o relativizzazione. La realizzazione pratica del suggerimento di Ventura imporrebbe una assegnazione arbitraria di pesi diversi a diversi enti del mondo, che sarebbero più o meno sacri sulla base del numero di soggetti che li ritengono tali, e dell'intensità di violenza di cui questi sono capaci. Se si sanzionano gli atti linguistici sulla base dei loro effetti attesi, allora diventano più meritevoli di protezione i sentimenti di quei gruppi più determinati a esercitare violenza. 
Un secondo punto è che dalla divinità personificata il divieto di critica immediatamente passa al libro, e dal libro al suo contenuto. Non c'è limite all'estensione dell'insieme degli oggetti sacri, e con esso ai soprusi che si possono perpetrare inserendo arbitrariamente in quell'insieme tutto ciò che si vuole sottrarre alla possibilità di essere discusso, o anche solo analizzato criticamente.
Se voglio scrivere che il Corano è un brutto libro, posso farlo o mi debbo censurare? È possibile operare una esegesi di quel testo ed una storicizzazione del profeta senza essere tacciati di blasfemia?
Un terzo punto è che le autorità preposte a sanzionare gli atti linguistici dovrebbero essere preventivamente istruite. La Madonna tecnicamente non è una divinità: un insulto alla Madonna si deve far rientrare comunque tra le bestemmie, magari a un livello inferiore? E se io insulto la santissima trinità, merito tre contravvenzioni o ne basta una sola? I vigili urbani dovrebbero fare un corso di teologia dogmatica? Oppure si dovrebbe chiedere alla conferenza episcopale di stilare una lista di frasi e parole proibite con relativi punteggi di gravità, una tabella bestemmie-sanzioni da consegnare alle forze di polizia e agli uffici giudiziari?
Certo, questi comici paradossi potrebbero essere forse superati con un po' di buonsenso, ma la commistione tra legge ordinaria e leggi di dio, espulsa dalla possibilità di esistere da secoli, tornerebbe ad avere quartiere anche nelle società occidentali.
In una società multiculturale che ospitasse non due o tre, ma decine o centinaia di gruppi differenti, sarebbe impossibile per qualsiasi autorità districarsi in un pantheon di divinità potenzialmente infinito, che tra l'altro può benissimo ospitare più volte lo stesso idolo con valenze diverse attribuitegli da gruppi diversi (Gesù Cristo è un profeta per l'islam, Calvino è un eretico per i cattolici, e così via). Si renderebbe necessario separare le sfere giuridiche ed i rispettivi interpreti, proprio come avvenne in Francia dopo l'editto di Nantes, almeno fino al 1623 (si pretendeva di essere giudicati da tribunali composti per metà da propri correligionari) e come Ventura indirettamente ha ipotizzato avvalorando, anche se con certe riserve, l'ipotesi immaginifica (e un po' farneticante) della "panarchia" avanzata da altri [6].
Io non lo so mica dove potrebbe condurre una simile deriva, ma so che tutto questo sarebbe comunque insufficiente. Tutti quei dispositivi che furono utilizzati per smorzare il conflitto durante il secolo XVII servirono solo a sedare la febbre, non curarono il male. Quello fu estirpato solamente quando la Francia ebbe recuperato una uniformità nel sentire sufficientemente solida da poterli finalmente abbandonare. Anche Ventura è ben consapevole che per pacificare la società
quello che sembra imperativo è ristabilire il consenso su una rappresentazione del mondo eventualmente approssimativa, ma perlomeno condivisa, sulla quale fondare la legittimità delle istituzioni democratiche
ma le visioni del mondo non sono tutte uguali, e non sono equivalenti. Trovare un accordo minimo purchessia potrebbe bastare forse a smorzare il conflitto e a scongiurare la guerra di tutti, ma evitare questa guerra non è l'unica esigenza che abbiamo, e non è neppure la più importante.
Da ogni visione del mondo, infatti, da ogni Verità, da ogni insieme di concezioni, e di valori, e di modi di pensare, scaturisce un tipo di uomo, e per ogni tipo di uomo si ha un tipo di società.
La società moderna, per definizione, è la società degli uomini moderni, e gli uomini moderni sono quelli che condividono una, peculiare, visione del mondo, che della modernità è la matrice.
Rinunciare a immanentizzare l'eschaton della modernità equivale a rinunciare alla modernità, e quindi tornare indietro di cinquecento anni. E se non esistono valori non negoziabili, allora non esiste una conquista di civiltà che non possa essere messa in discussione, o rinunciata del tutto, qualora le convenienze del momento lo suggeriscano.
Credo invece che combattere per riaffermare queste conquiste quando vengano attaccate sia un dovere morale che abbiamo, nei confronti di tutti quegli uomini che hanno versato il loro sangue per lasciarcele in consegna (per ultimi gli eroi dell'Hebdo, che non hanno ricevuto nemmeno un monumento commemorativo per timore di altre rappresaglie), e nei confronti di tutti quegli altri che verranno, cui le dovremo consegnare intatte.
Barattarle con un obiettivo a breve termine di quieto vivere può essere la tattica più pragmatica, utile per "neutralizzare" o almeno procrastinare la guerra di tutti. Ma non ne abbiamo il diritto.
Siamo d'accordo che le guerre di tutti, le guerre civili a bassa intensità, come le guerre civili classiche e come le guerre convenzionali, siano qualcosa di orribile da scongiurare in ogni modo.
Ma quando ormai ci siamo dentro, l'unico modo per uscirne è combattere.
E allora il compito degli intellettuali - delle avanguardie come si diceva una volta, e proprio per questo motivo - sarebbe quello di affinare le armi per la battaglia culturale che si profila.
Ventura non si tira indietro: affronta il problema centrale inquadrandolo perfettamente, accettando anche tutte le sue complessità e scartando le finte-soluzioni di comodo fornite dal politicamente corretto. Si spinge addirittura fino a indicare una possibile strada per neutralizzare il conflitto, e la linea di azione che suggerisce è lucida, razionale, pragmatica, magnificamente argomentata.
Forse è perfino praticabile. 
Solo che quello che ci offre, più che un arma da guerra, è il piano per una ritirata.



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