Troppi Avvocati! era il titolo di un celebre pamphlet di Pietro Calamandrei scritto nel 1921, quando si potevano ancora usare i punti esclamativi senza essere sospettati di "analfabetismo funzionale".
Il grande giurista fiorentino - e padre costituente - usava quel punto esclamativo per scagliarsi contro "questo proletariato forense che ogni anno s'invilisce col crescere di numero, come un fiume di piena che più s'intorbida quanto più si gonfia", ma le argomentazioni con cui stigmatizzava l'eccesso di avvocati sono valide per tutti gli ordini professionali, non solo per gli avvocati, e lo sono ora più che mai.
Riguardo al sistema scolastico però sono vivi da molto tempo in Italia numerosi luoghi comuni, alcuni dei quali talmente diffusi che vengono assunti come apodittici e più nemmeno discussi.
Il più pervasivo di tutti è che in Italia ci sarebbero "pochi laureati", mentre in realtà ce ne sono troppi. [1]
Un altro luogo comune è che la nostra scuola sia "classista" perché troppo chiusa, e dunque poco "meritocratica", e tenda perciò a riprodurre l'ordine sociale esistente [2].
Questa ultima è cosa vera, e vale per ogni sistema scolastico, ma in Italia è aggravata dall'essere il sistema scolastico troppo aperto, non troppo chiuso. Invece la narrazione superficiale del politicamente corretto crede di poter "risolvere" questo difetto aprendo ancora di più il sistema (l'università gratis per tutti, alla Piero Grasso) e applicando criteri di selezione basati su vagamente definite "attitudini", e su un "merito" che immagina ingenuamente di poter misurare con un metro che escluda vantaggi competitivi.
Il fastidio per questi luoghi comuni mi ha fatto progressivamente cambiare opinione, in merito al sistema educativo teoricamente ideale, e ai pregi e difetti del sistema educativo italiano in particolare.
Fino a non molto tempo fa, ad esempio, avrei potuto scrivere tutto il male del mondo del sistema scolastico superiore americano dei college della Ivy-League. Classista, elitario, costruito su misura per la high-class americana, eccetera. Ora dico che con le sue imperfezioni è di gran
lunga migliore di quello che abbiamo qua, e la ragione sta proprio nelle concezioni che lo ispirano.
Muovendo dall'assunto che una scuola d'élite è sempre
esistita ed esisterà sempre, che una scuola d'élite per
definizione non può essere per tutti, che l'idea di rendere
l'accesso esclusivamente meritocratico è una pia illusione;
in USA si è costruito un modello che tempera la
discriminazione di censo per mezzo di borse di studio verso
il basso, e di meccanismi di rating verso l'alto. Non si è cercato demagogicamente di creare una
"università per tutti" semi-gratuita come in Italia, proposito
assurdo che ha due effetti perversi: uno, più evidente, è il
degrado della qualità della formazione universitaria e lo
svilimento del valore di titoli di studio; l'altro, meno
evidente, è che innesca un meccanismo regressivo ancora più
classista, con esiti opposti a quello che promette di
realizzare: sposta l'asticella della competizione verso l'alto. Una
volta che la laurea è divenuta merce comune, i membri della
classe borghese sono costretti a salire un altro gradino per
la competizione interna, prosciugando i patrimoni di
famiglia in una lotta senza fine a colpi di dottorati e
costosi master post-universitari all'estero.
Tutto ciò produce fra le altre cose la fenomenologia
della "classe disagiata" ottimamente descritta da Raffaele Alberto Ventura [3]. Ma non solo. Ci sono effetti
più profondi e ancora più tragici, tra cui la denatalità è
il maggiore, con la crisi economica che ne segue come prima conseguenza.
Il sistema scolastico deve essere funzionale al
sistema-paese: deve formare quelle competenze che il mercato
del lavoro richiede. Lo squilibrio tra domanda e offerta di
forza lavoro intellettuale, con il conseguente fenomeno
della disoccupazione intellettuale, con l'ulteriore
sottoprodotto dell'elefantiasi della pubblica amministrazione (causata dai reiterati e vani tentativi dei
governi di trovare uno sbocco a una pletora sempre crescente
di "spostati", con la parola usata da Gaetano Salvemini), che a sua
volta ha come ulteriori sottoprodotti la burocrazia e la spesa
pubblica abnorme, sono un malanno che ammorba il sistema
scolastico italiano almeno dalla Legge Casati del 1859.
Ne furono consapevoli, oltre ai già citati Salvemini e Calamandrei,
Aristide Gabelli, Antonio Gramsci, Adolfo Omodeo, Piero
Gobetti, e perfino dirigenti storici del
partito comunista come Concetto Marchesi. Ma tutti i tentativi di correggere questa stortura che
si sono succeduti in un secolo e mezzo, introducendo (e
facendo funzionare) una "scuola di scarico", cioè un
percorso di istruzione secondaria professionalizzante, non
propedeutico all'università ma finalizzato a formare i
quadri intermedi - soprattutto tecnici - che la struttura
economica italiana richiede, sono miseramente naufragati;
per le pressioni politiche esercitate da quei gruppi che
paventavano di essere esclusi dall'ascensore sociale, e per
la tenace resistenza del corpo accademico geloso delle
proprie prerogative.
Perfino il tentativo del regime
fascista fallì: la "scuola complementare" introdotta con la
Riforma Gentile del 1923 fu disertata dagli alunni e chiusa
dopo due anni, e il blocco del numero delle università
statali, che Gentile aveva voluto per limitare il
proliferare di piccoli atenei nei centri minori, produsse
come risultato la nascita di università "libere" (come
l'università di Firenze, che nasce proprio nel 1924) per cui
il numero totale di atenei addirittura aumentò.
Nel proposito di contrastare il credenzialismo fallì la
riforma Bottai del 1939. E nel proposito di introdurre una
scuola di scarico con la "post-elementare" (che era una
riedizione della complementare del 1923) naufragò la
riforma Gonella del 1955. E così piano piano ci si rassegnò
al destino fatale: la riforma della scuola media del 1962
abolì gli avviamenti professionali, e i movimenti studenteschi
del 1968 liberalizzarono l'accesso alle università,
per cui anche i diplomi di scuola superiore cessarono di
essere professionalizzanti e divennero un passaggio
preparatorio agli studi universitari.
Il bel risultato di
questo secolare processo storico è il disastro che abbiamo
dinnanzi: un unico interminabile percorso che dalla prima
elementare porta fino alla laurea quinquennale, dove chi si
ferma è perduto; in cui almeno due generazioni hanno speso i
loro anni migliori ad aspettare che qualcuno gli spiegasse
dove mai dovesse portare, questo sentiero che era stato
tracciato per loro.
Qui nel seguito ripercorriamo la storia dell'evoluzione del sistema scolastico italiano, e concludiamo con un po' di dati attuali, relativi a tutte le
categorie professionali una per
una.
La mia tesi è che la sovrapproduzione di laureati, e assieme ad essa la massificazione del modello culturale borghese, che produce la crisi di identità (e il risentimento crescente) della classe media, non coinvolge solo i lavoratori dell'industria culturale, laureati in discipline umanistiche che scoprono all'improvviso non esserci alcun posto per loro. È una realtà molto più ampia: investe anche tutte le professioni liberali, nessuna esclusa, anche se con differenti gradi di intensità.
Per chiarezza, le professioni
liberali borghesi di cui parlo
qui sono quelle che hanno un ordine
riconosciuto dallo Stato, un
codice deontologico, e un albo
professionale cui ci si iscrive
dopo un esame di abilitazione.
In Italia, in ordine di
antichità, sono l'ordine dei
medici e quello
degli avvocati che sono i più antichi (in età contemporanea, l'ordine degli avvocati è fondato nel 1874, l'ordine dei medici nel 1910); poi gli architetti e gli
ingegneri che esistono da circa
cento anni (legge 1395 del 1923), i giornalisti che sono
arrivati nel 1963, e ultimi in ordine
di tempo i biologi (1967) i dottori commercialisti
e gli psicologi; mentre l'ordine
storico dei farmacisti ormai è
quasi estinto. Possiamo accorpare
i notai all'ordine forense, anche
se hanno un albo distinto, e
trascurare il consiglio nazionale
dei chimici, poco significativo
per l'osservazione delle
professioni liberali (il chimico
libero professionista è
estremamente raro).
Per lo stesso motivo possiamo
trascurare i magistrati: si tratta
senz'altro di membri della
borghesia professionale, ma il
magistrato è togato, e quindi non
"libero"; mentre non possiamo
trascurare i professori
(universitari): non esiste un
ordine nazionale dei professori,
ma i professori sono quelli che
assegnano i titoli a tutti gli
altri, quindi sono strettamente
intrecciati a tutte queste
categorie.
Quindi, riassumendo con
un elenco puntato, sostengo che:
-) Il sistema paese italiano
soffre, da 150 anni, di un eccesso, e non carenza, di
laureati.
-) il numero "giusto" di
laureati non si misura "rispetto
alla Svezia" ma rispetto alle
esigenze del tessuto produttivo
italiano.
-) il luogo comune che vuole
che i laureati siano troppo pochi
è determinato, oltre che dai
desiderata della borghesia intellettuale che è tiranna delle
correnti di opinione ritenute
"corrette", dalla pretesa di
confrontare dati eterogenei in
contesti eterogenei.
-) Negli altri paesi europei i
sistemi scolastici hanno una
scuola di scarico
professionalizzante, e forniscono
molti tipi di preparazione
secondaria subito spendibili nel
mercato del lavoro, alternativi alle
professioni liberali "classiche".
-) Lo squilibrio tra domanda e
offerta di forza lavoro
intellettuale deriva dalla
struttura aperta del sistema
scolastico e dalla sua
impostazione di fondo.
-) oltre che nei suoi rapporti
col mondo del lavoro, il sistema
scolastico italiano fallisce anche
nella sua funzione di
socializzazione. Essendo stato pensato per
formare una classe dirigente, il
sistema costruisce, e solo
legittima, il gusto borghese, che è
elitario e classista.
-) La struttura aperta del
sistema scolastico, congiunta con
il modello educativo elitario,
hanno prodotto la massificazione
di un modello culturale
intrinsecamente insostenibile.
-) Le conseguenze di tutto
questo sono drammatiche.
Mi sembra che ce ne sia abbastanza. Ripercorriamo dunque brevemente la storia del sistema.
Tutte le
riforme della scuola che
sono state intentate in
Italia in un secolo e
mezzo avevano come
obiettivo principale
quello di frenare
l'esubero di titoli e di
"cartoffia", causa di
persistente disoccupazione
intellettuale; obiettivo,
questo, ancora
più impellente
dell'alfabetizzazione.
Nell'ordine la legge
Coppino del 1877, la
legge Orlando del 1904,
la legge Daneo del 1911,
la riforma Gentile del
1923, la riforma Bottai
del 1939, la fallita
riforma Gonella del
1955, furono tutte
concepite con
l'obiettivo di porre un
argine a questa
proliferazione,
originata dalla
struttura aperta fissata
originariamente dalla legge Casati del
1859.
Della riforma della
scuola media del 1962 e
della liberalizzazione
degli accessi
all'università del 1969,
che segnò il punto di
non ritorno, si è
detto. Da quel momento
in avanti i tentativi
di rendere funzionale al
paese il sistema
scolastico sono divenuti
sempre più deboli: la
scuola diviene sempre
meno selettiva, e si
manifesta la piaga
sociale della
dispersione scolastica.
I tentativi di
correzione successivi
(D'Onofrio 1995,
Berlinguer 1997, Moratti
2003, per arrivare a
Fioroni, Gelmini e Renzi
con la sua "buona
scuola", passando per il
vituperato "choosy"
della Fornero che ha
incendiato tante code di
paglia) sono tutti fiacchi palliativi
tesi a riordinare in
qualche modo un sistema
che è finito da mezzo
secolo completamente
fuori controllo, ma che
aveva sempre funzionato
male anche prima. La disoccupazione
intellettuale in Italia
ha prodotto (come conseguenze) non solo la
stagnazione economica,
ma anche corruzione e il
clientelismo diffusi e
l'elefantiasi della
pubblica
amministrazione; con la
seguente paralisi delle
istituzioni e dei
servizi, per la
burocratizzazione
causata dalla miriade di
uffici che devono
giustificare la propria
esistenza.
Uffici che
sono stati creati
proprio per la necessità
di dare qualcosa da fare
alle centinaia di
migliaia di "spostati"
prodotti dalle
università:
"questo disgraziato proletariato intellettuale, creato in gran parte artificialmente dallo stato e messo nella tragica situazione di dover attendere dallo stato un'occupazione, un lavoro adatto alla sua preparazione culturale, accademica, letteraria, teorica, ha esercitato per quasi mezzo secolo una pressione silenziosa ma irresistibile sugli uomini politici e sui governanti perché si accrescessero e si estendesse il numero degli uffici, anche se della necessità di questi non si potesse dare una ragione plausibile"
E. Lolini, "La
riforma della
burocrazia", 1919
Il processo di
assorbimento nella
burocrazia dei diplomati
e laureati in eccesso
era già stato descritto
da Francesco Saverio
Nitti nel capitolo "il
bilancio italiano e la
lista civile della
borghesia" (F.S. Nitti,
"il partito radicale e
la nuova democrazia
industriale", 1907).
Il fenomeno,
descritto addirittura da
Aristide Gabelli -
ministro dell'istruzione
del governo Crispi - ne
"L’istruzione e
l’educazione in Italia"
del 1891, fu sempre più
grave nel mezzogiorno
d'Italia, dove la
percentuale di studenti
che proseguono gli studi
dopo la scuola
secondaria è sempre
stata maggiore, proprio
perché l'economia è
asfittica ed è più
forte la competizione
per accaparrarsi le
poche posizioni
disponibili, come lo è
la pressione per crearne
artificialmente di
inutili:
"..non offrono quasi nessuna possibilità di impiego produttivo ad una classe che non è così ricca da poter vivere di rendita, né così povera da accettare spontaneamente quella che essa giudica degradazione del lavoro manuale""Tutte le famiglie della media e della piccola possidenza sono portate ad avviare i loro figli quasi esclusivamente verso le professioni liberali e gli impieghi".
"ogni laureato, diplomato, bocciato, procura di ottenere un impiego pubblico e di assicurarsi così un reddito qualunque a spese dei bilanci locali. Non c'è posto di scrivano municipale, medico ispettore del dazio consumo, professore, pareggiato, ragioniere, economo, segretario, guardia municipale, bidello, che non abbia due o tre spasimanti"
Gaetano Salvemini,
"la piccola borghesia
intellettuale nel
Mezzogiorno d'Italia",
1911.
Interessante quel "che
essa giudica", nelle
parole del
Salvemini. Un
altro
intellettuale
che denunciò il
fenomeno fu
Rodolfo
Mondolfo, "Il
problema della
classi medie",
in Critica
Sociale, 1925:
"..li pone nella condizione di nuove plebi di cui parla Treves, per la discesa in una miseria non meno accentuata di quella del proletariato; ma non genera in essi una fratellanza di dolore e una solidarietà di coscienza con questo, quanto un senso di rammarico, che si traduce talora quasi in un risentimento contro i nuovi vicini e in un distacco spirituale da essi, come di nobiltà decaduta, che non sa acconciarsi alle nuove comunanze di vita"
Anche
Piero Gobetti
si scagliava
contro coloro
che "hanno da
conquistare le
lauree perché
così vogliono
mamma, nonno e
papà". A suo
avviso l'unica
soluzione era:
"tagliare la strada ai futuri spostati, subito. Avremo meno avvocati e meno conferenzieri, ma più serietà e più onestà. Gli attuali studenti di liceo vanno eliminati in proporzione dell'ottanta per cento".
Tuttavia
egli ben
prevedeva che:
"ci sarebbe perlomeno da lottare contro quell'ottanta per cento di studenti eliminati, e coi loro padri, nonni e zii, che non si rassegnerebbero a vedere figli e nipoti nell'officina. Senza pensare che ci sarebbe anche la reazione dei professori, che si troverebbero a non aver più scuole statali sufficienti dove insegnare."
Piero
Gobetti, "il
problema della
scuola media:
il Liceo",
1919.
Come già
si diceva,
perfino il
regime
fascista fallì
nel tentativo
di
riequilibrare
il sistema
scolastico
secondo le
esigenze reali
del paese. La
riforma
Gentile fece
fiasco nella
sua componente
più importante
(la scuola
complementare)
e la riforma
Bottai del
1939
riprodusse
sostanzialmente
questo stato
di cose. La
guerra poi
allentò ancora
i filtri
portando uno
stato
d'emergenza
che fece
levitare
ulteriormente
il numero di
laureati in
eccesso. Lo storico
(e ministro
dell'Istruzione)
Adolfo Omodeo
nel 1945
osservava che
solo nei due
atenei di Roma
e Napoli
c'erano più
iscritti che
in tutta
l'Inghilterra:
"La piaga sociale è preoccupante. La guerra ha moltiplicato iperbolicamente la massa degli spostati che si orientano alle professioni liberali"
e ancora,
profeticamente:
"la crisi di sovrapproduzione di laureati, che era già manifesta nel ventennio, si inasprirà provocando la rovina economica dell'Italia"
A. Omodeo,
"Politica
universitaria",
1945
Né
si deve
pensare che il
fenomeno sia
stato denunciato
soltanto da
intellettuali
"di destra"
(ammesso che
quelli sopra
si possano
considerare
tali). Il
dirigente
storico del
Partito
Comunista
Concetto
Marchesi
scriveva che
mentre i tre quarti
della
popolazione
erano ancora
analfabeti, il
nostro paese contava "un
enorme
ridicolo
numero di dottori":
"L'Italia ha un bubbone che è necessario estirpare al più presto: il bubbone dottorale."
Concetto
Marchesi,
"Motivi di
Politica
Scolastica",
in
"Rinascita",
1945.
Nell'immediato
dopoguerra le
conseguenze
del fenomeno
furono
attenuate un
poco dal boom
economico
(1955-63), che
permise di
assorbire una
fetta di
lavoratori,
intellettuali
e non (e
durante questo
periodo ci fu
l'ultimo,
inutile,
tentativo di
riformare il
sistema
scolastico con
l'obiettivo di
risolvere
questo
squilibrio,
portato da
Guido Gonella
nel 1955) ma
l'enorme
numero di
iscritti alle
università,
alimentato
anche dalle
università
stesse che
tendevano ad
"allargare le
maglie" per
accogliere un
numero di
studenti
sempre
maggiore - ed
accaparrarsi
così i
finanziamenti,
proporzionali
al numero di
iscritti,
facendo
scadere la
qualità della
formazione - era
impossibile da
assorbire
anche durante
gli anni del
boom.
Con la
fine del
periodo, poi,
e l'arrivo
dalla crisi
petrolifera
del 1973, il
problema
esplose
manifestandosi
in forma più
grave che mai.
Negli anni
settanta
governi deboli
in ostaggio di
maggioranze
risicate,
nella
necessità di
fornire
soddisfazione - ma meglio
dire sollievo - alle loro
clientele di
riferimento
riprendono
l'antico
costume di
moltiplicare
gli uffici con
lo scopo di
moltiplicare
le seggiole.
Si
moltiplicano
così ancora di
più posti
improduttivi
nel settore
terziario e
nella pubblica
amministrazione, ove molti laureati diventano percettori di stipendi
"che sono
larvati
sussidi di
disoccupazione"
(Paolo
Sylos-Labini,
"Sviluppo
Economico e
classi sociali
in Italia",
1972). Questo
produce
l'esplosione
della spesa
pubblica, che
negli anni '70
viene ancora
"monetizzata":
lo stato
stampa moneta
per pagare gli
stipendi del
moloch
burocratico
senza uscire
dai rapporti
di debito, ma
questo
naturalmente
produce
l'impennata
dell'inflazione,
che raggiunge
il 20% alla
fine del
decennio, nel
1979. È per
ovviare a
questo
problema che
nel 1981 si ha
il "divorzio"
tra il tesoro
e la Banca
d'Italia. La
BdI autonoma
ha nello
statuto il
controllo
dell'inflazione
e riesce a
riportarla a
tassi più
bassi, ma
non potendo
più stampare
soldi per
finanziare la
spesa pubblica
abnorme - che
non si poteva
"comprimere",
perché da quei
sussidi di
disoccupazione
larvati di cui
parlava
Sylos-Labini
dipendeva
ormai metà
della
popolazione
italiana -
negli anni '80
si compromette
il rapporto
Debito/PIL,
che passa dal
57% del 1980
al 125% del
1994.
Oltre il
120%, gli
interessi sul
debito
rischiano di
far innescare
la spirale,
dopodiché
neppure un
(improbabile)
taglio
drastico della
spesa pubblica
può più
invertire il
processo.
Nella sbornia
generale del
craxismo, a
metà degli
anni '80 la
profezia di
Adolfo Omodeo
cominciava ad
avverarsi.
Allora, con la
scusa
dell'Euro e
dei parametri
fissati nei
trattati di
Maastricht del
1992, si cercò
salvezza
nell'austerity
e nell'unione
monetaria.
Tutti i paesi
dell'area EU
infatti
avevano questo
problema,
anche se non
così
gravemente
come l'Italia.
Ma nemmeno
questo servì a
gran che se
non a
rallentare
l'agonia:
dalla seconda
metà degli
anni '90 alla
metà degli
anni duemila
perdurò un
periodo di
impasse, in
cui si
vivacchiava a
chiappe
strette
aspettando che
qualcosa
avvenisse,
nella politica
internazionale
come nelle
famiglie
piccolo-borghesi.
Finché
qualcosa
avvenne
davvero nel
2007, quando
arrivò la
crisi vera e
propria con la
bolla
immobiliare
dei sub-prime.
Ma quello era
stato solo
l'innesco,
come la cicca
di sigaretta
gettata in una
pozza di
benzina, e ce
ne siamo
accorti nel
decennio
successivo.
Una crisi
ciclica è
appunto
ciclica, si
disinnesca con
politiche
anticicliche
oppure si
esaurisce da
sola. Questa è
qualcosa di
diverso. Non
se ne esce,
perché la sua
causa profonda
sta nella
quantità
abnorme di
sussidiati, e
nella
distribuzione
in coorti di
età della
popolazione in
età da lavoro,
ossia nella
struttura
demografica
dei paesi
occidentali,
come si è
determinata a
partire dalla
metà degli
anni '80.
Struttura
demografica
che a sua
volta è
conseguenza
dell'imborghesimento
generale e
della
trentennale
crisi di
occupazione
delle classi
medie, che
medie non sono
più.
A questo
punto la
rovina
economica
profetizzata
da Omodeo
sarebbe il più
insignificante
dei mali:
quello che ci
sta capitando
è qualcosa di
molto peggio
di un banale
default: ci
estinguiamo.
Essendo
subentrata la
rassegnazione,
lo squilibrio
tra domanda e
offerta di
forza lavoro
intellettuale
è stato
analizzato con
minore
intensità
negli ultimi
30 anni. Con
ciò si è
nascosto il
problema sotto
al tappeto, e
ci si è
dimenticati
della sua esistenza.
Addirittura
ogni tre per
due arriva
qualche falco
che dice che
di laureati ce
ne sarebbero
troppo pochi,
facendo
confronti tra
dati
eterogenei
raccolti in
contesti
diversi [4].
Ma
quando lo si è
fatto, si è
visto che - ovviamente -
la situazione
si è aggravata
ancora
rispetto ai
periodi
precedenti. Nel
2012, in base
ai dati OCSE,
l'associazione
nazionale
degli avvocati
italiani denunciava:
"Per i laureati nei paesi dell’OCSE la disoccupazione è cresciuta dal 10,6 al 14,8 per cento tra il 2008 e il 2011. In Italia si è passati dal 18,6 al 21,8 per cento, in Francia dal 7,5 al 10,4, in Gran Bretagna dall’8 al 12 per cento.La disoccupazione giovanile dei laureati si incrementa dappertutto e dipende principalmente dalle asimmetrie tra le Università e il mercato del lavoro.Sono molte le iscrizioni alle Università che non hanno corrispondenti sbocchi lavorativi, mentre sono scarse le iscrizioni in facoltà dove le richieste di lavoro sono superiori.Alla mancanza di coordinamento tra Università e lavoro si unisce – specie in Italia – la inesistenza di numeri chiusi in alcune facoltà (giurisprudenza ed economia) e la quasi assenza di lauree moderne ed attuali".
(Maurizio
de Tilla,
presidente
ANAI)
L'ANAI
giustamente
osserva che si
tratta di un
problema
generale, ma
per la
categoria
degli avvocati
è
particolarmente
grave. Nel
2016 l'Italia
è il paese con
il maggior
numero di
avvocati al
mondo, con
237.000
iscritti alla
cassa forense.
Solo nel Lazio
ci sono tanti
avvocati
quanti in
tutta la
Francia.
Secondo
i dati
raccolti dal
Consiglio
Europeo degli
Architetti
(ACE), gli
architetti
italiani
rappresentavano
nel 2014 poco
meno del 27%
del totale
europeo
(includendo
anche la
Turchia!).
Nel 2017
il rapporto
Cresme rivela
che in Italia
ci sono 2,5 architetti
ogni 1000
abitanti,
contro gli
0,45 della
Francia e gli
0,57 del Regno
Unito.
Sono
cinque volte
tanti, e anche
qui è la
percentuale
più alta del mondo. [5]
La
categoria
degli
psicologi è
l'ultima
arrivata tra
le
"professioni
liberali"
(l'ordine
degli
psicologi è
stato
istituito nel
1989) ma in
meno di
trent'anni ha
colmato il
gap e si è
allineata ai
valori da
primato
assoluto delle
altre. Nel 2013
il numero di
psicologi
italiani
supera quota
100.000, su un
totale di
300.000
psicologi in
28 paesi UE.
In Europa, uno
psicologo su
tre è
italiano.
Nella città di
Roma c'è uno
psicologo ogni
350 cittadini.
"In pratica
uno psicologo
per ogni
condominio",
scrive Carlo
Balestriere su
"Professione
Psicologo"
ottobre 2016,
che conclude
con "qualcosa
bisogna fare,
perché la
situazione è
drammatica" [6].
Nella
categoria dei
medici il
fenomeno è un
po' contenuto
dal numero
chiuso, in
vigore dal
1999.
Nonostante
questo,
secondo dati
OCSE nel 2015
in Italia ci
sono 4 medici
ogni 1000
abitanti, dato
allineato a
quello della
Germania,
inferiore in
Europa solo a
quello
dell'Austria
(4,9) e della
Grecia (6,2);
mentre
scarseggiano
gli infermieri
(siamo al 24°
posto su 34
paesi OCSE per
numero di
infermieri) [7].
L'ordine
dei
giornalisti
poi è una
barzelletta (e
infatti da due
decenni da
diverse parti
se ne invoca
l'abolizione):
al 2013
contava una
cosa come
110.000
iscritti.
Significa che
circa un
italiano su
500 è
giornalista [8].
Eppure ogni tre
giorni arriva
il solito
falco di prima,
che si indigna
dopo aver
scoperto che i
pezzi vengono
pagati pochi
euro (se
vengono
pagati).
All'inizio
di questo secolo la situazione è analizzata
anche dall'Istituto di ricerca dei dottori
commercialisti: "Viaggio tra i perché della
disoccupazione intellettuale in Italia".
Contributi di Antonelli, Cacace, Cafiero,
Capecchi, Di Nardo, Franchi,
Frigo, Garito, Martini, Martuscelli,
Paoletti, Reyneri, Rossano, Serao,
Viarengo. Collana fondazione Aristeia,
2000 [9]; ed i perché individuati da tutti
questi autori, nell'anno 2000, sono gli
stessi individuati da tutti quegli altri
citati sopra, che hanno tutti una unica
antica origine nella struttura
eccessivamente aperta del sistema
scolastico Casati del 1859, che in 150
anni non si è mai riusciti a correggere.
Nella
società italiana del
2017, infine, Raffaele Alberto Ventura con il suo saggio "Teoria della classe
Disagiata" già citato sopra ha
scatenato un
putiferio proprio
perché ha tratteggiato un
tipo prototipale, il
"disagiato", in cui
sono riconosciuti
centinaia di
migliaia di trentenni
e quarantenni di
oggi. Giovani o
ex-giovani
laureati, spesso
pure dottorati,
masterizzati, che
si trovano a
vendere pizze o
fare i lavapiatti;
accomunati dal
"disagio" e dalla
più o meno lucida
percezione che c'è qualcosa non
torna, nelle
promesse che gli
erano state fatte
e nelle illusioni
che si erano fatti
per averci
creduto, e anche
nell'oneroso
investimento
formativo che le
loro famiglie
hanno sostenuto,
che scoprono solo
ora essere stato
una truffa
colossale.
Se il problema
non esiste, da
dove escono tutti
questi? Sono arrivati
nella sua pagina a migliaia,
per offrire la
loro
testimonianza. Ad una prima
cerchia fatta di
dottori in materie
umanistiche
aspiranti workers
dell'industria
culturale, che si
affannano dietro a
una SSIS nella
speranza di fare
almeno qualche
supplenza in una
scuola di
periferia e
vivacchiano di
ripetizioni in
ciabatte e aiutini
dalla famiglia,
cui principalmente
di rivolgeva
Ventura; si sono
aggiunti ingegneri
che fanno gli
impiegati,
architetti che
fanno i geometri,
commercialisti che
fanno gli
amministratori di
condominio,
avvocati che
vendono polizze,
perfino medici che
fanno i
"giornalisti
freelance".
E quelli che
si rassegnano e
aprono un
"ristorante
tipico", per
bruciare quel poco
che rimane del
patrimonio di
famiglia e poi
fallire anche con
quello, come
quelli che brigano
tramite le
relazioni per un
"posto" in una
amministrazione
purchessia, questi
non li vedi sul blog di
Eschaton, ma ci
sono anche loro.
Dall'altra
parte abbiamo un
tessuto produttivo
che è asfittico,
anchilosato,
familista, che
soffre del
patologico eterno
nanismo delle PMI
italiane, ma che
purtuttavia
esiste e un
qualche impiego lo
offrirebbe, se ci
fosse qualcuno
capace di
soddisfare questa
domanda, o almeno
di dimostrarsi
interessato ad
essa. Nella mia
esperienza
lavorativa mi è
capitato di fare
colloqui di lavoro
da entrambe le
parti, ma
l'esperienza più
scioccante è
quella lato
offerente: le
notizie di offerte
di lavoro andate
deserte non sono
mica una leggenda. Ne ho avuto
esperienza
personale tre
volte negli ultimi
dieci anni.
A questo punto
la più trita
obiezione in cui sistematicamente
ci si imbatte è
"ma allora si
dovrebbe tornare
tutti alla
vanga?", mentre
quello che manca è
un equilibrio tra
quello che il
mercato del lavoro
richiede, e quello
che il sistema
scolastico
produce.
Quello che
servirebbe, e che
manca
drammaticamente, è
una formazione
tecnica di livello
intermedio,
professionalizzante
e aggiornata
rispetto alle
nuove tecnologie;
mentre il sistema
educativo italiano
d'élite è ancora
incentrato sul
liceo classico (e
sul liceo
scientifico
fratello minore)
con programmi che
non hanno nulla di
paragonabile in
nessun programma
di nessuna scuola
di nessun altro
paese europeo e
non (ed è per
questo che
confronti non si
possono fare),
essendo riconducibili all'impostazione
della Ratio
Studiorum
elaborata dalla
Compagnia di Gesù
nel 1599.
E
infatti gli ITS,
che si stanno
lentamente e
faticosamente
affermando in
parallelo al
sistema delle
università di
stato, cercano
di rispondere a
questa esigenza.
Si tratta di
diplomi
superiori,
corrispondenti
al V livello del
Quadro europeo
delle qualifiche
(European
Qualification
Framework).
Non servono
braccianti,
quindi, servono
giovani di
intelletto,
preparati e
motivati, capaci
di far
funzionare
macchinari di
recente
generazione, di
assemblarli e
collaudarli;
capaci di
mettere in piedi
una LAN e di
gestire i
protocolli di
sicurezza, di
programmare un
automa, di
elaborare il
firmware di una
scheda
elettronica, di
configurare un
anello SDH, di
controllare i
cicli di
verniciatura
dell'acciaio.
Ma non ce ne sono.
Anche le
facoltà di
Ingegneria, in
Italia, sfornano
ingegneri con
una preparazione
da dirigente di
grande impresa
multinazionale,
poco o punto
collegata con la
progettazione,
la manutenzione,
l'impiego e il
collaudo di
macchine. E'
indicativo come
si traduca
"Engineer" con
"ingegnere" che
suona simile a
orecchio, senza
rilevare la
differenza di
etimologia.
"Engineer"
significa
motorista, e si
dovrebbe
tradurre col più
generale
"macchinista",
col significato
di esperto di
macchine; ma
nella lingua
italiana la
parola
macchinista è
riservata a
quello che guida
il tram, e gli
ingegneri sono
"uomini di
ingegno".
Dietro a
tutto questo c'è
ancora
quell'atavico
pregiudizio
crociano - questo
sì elitista - che
pensa questo
tipo di
preparazione
"nozionistica" e
quindi indegna
degli "spiriti
superiori".
Ma questa
massa di spiriti
superiori
disoccupati, che
rinuncia ai
figli e si
dedica al gatto
nell'illusione
di preservare
l'apparenza di
un tenore di
vita borghese -
attingendo
all'infinito
dalla pensione
della mamma
mummificata in
soffitta, come la
madre del
protagonista di
Psycho - è
destinata
all'estinzione.
Questa "Società
signorile di
massa", con la
felice
espressione del
sociologo Luca
Ricolfi
dell'univerità di Torino ("L'enigma della
crescita", 2014)
ha i giorni
contati: "altri
uomini e altre
donne verranno a
prendere il
nostro posto",
scrive Raffaele Alberto Ventura.
E meno male,
aggiungo io.
Postilla
Quello che ho sostenuto qui è che del diffuso squilibrio di status che coinvolge una intera generazione il sistema scolastico sia responsabile in misura importante, anche se non è il solo responsabile.
Lo è perché eccessivamente aperto e privo di scuola di scarico. E lo è perché nel suo percorso d'élite (liceo e università) è improntato a uno schema pedagogico che si può far risalire addirittura alla Ratio Studiorum elaborata dalla compagnia di Gesù nel 1599.
Questo schema pedagogico viene attribuito da molti alla riforma Gentile, quest'ultima è collegata al fascismo, e quindi si produce un'interpretazione secondo cui tutto questo sarebbe un lascito del fascismo.
Questa interpretazione è completamente sbagliata. Quelli che dicono che il nostro sistema, incentrato sul classico, è "gentiliano", quindi fascista, quindi brutto brutto, conoscono poco la storia del sistema educativo italiano. La riforma Gentile non introdusse il liceo classico, quello c'era già prima, tanto che lo aveva frequentato lo stesso Gentile. La riforma introdusse anzi il liceo scientifico (che all'inizio si chiamava liceo "moderno") e cercò di correggere alcune storture, senza nemmeno riuscirci: cercò di ridurre il numero di atenei, per esempio, ma come risultato nacquero le università "libere" e il numero addirittura aumentò; cercò di introdure una scuola complementare, ma quella fu disertata e chiusa dopo due anni.
Il credenzialismo, cioè la corsa ai "titoli", non fu prodotto dalla riforma Gentile, che anzi tentò invano di contrastarlo. Era stato prerogativa del sistema italiano fino da prima ancora dell'unità, ripartì in misura massiccia nel dopoguerra sulla scia del boom economico, poi, anche dopo la fine del boom, per un certo periodo si autoalimentò come uno schema Ponzi. È la caratteristica di tutte le bolle: le aspettative poste su qualcosa che si ritiene debba essere redditizio per forza per un poco lo rendono redditizio davvero. Il sistema scolastico fagocitava i suoi prodotti: molti laureati trovavano sbocco nell'insegnamento (cioè nella produzione di altri laureati) e nella "ricerca" (che metto tra virgolette per distinguerla da quella orientata al processo produttivo) che consisteva sostanzialmente in sussidi ad attività improduttive.
Solo che questo processo, come ogni schema piramidale, assorbe risorse dal resto del sistema ed è destinato a collassare quando queste finiscono. E quando la bolla scoppia ci si domanda come abbiamo fatto a non accorgerci che era impossibile che durasse.
La bolla dei titoli è scoppiata da un pezzo, ormai.
Uno che è giunto a conclusioni simili partendo da premesse diverse è Michele Boldrin, che su nFA nel 2014 lanciava questo dibattito centrato proprio sul primato del classico, cui partecipai (i miei contributi sono tra i commenti). Successivamente mi ha bannato perché l'ho contraddetto troppe volte, come fa un po' con tutti, ma all'epoca andavamo quasi d'accordo.
Non che condivida in pieno quello che scrive Boldrin, come si può vedere dai miei interventi nella discussione. Correttamente individua nel "classico" il cuore del problema, ma non riconosce le ragioni profonde della sua intuizione. Crede anche lui che la colpa sia di Gentile, e che il problema sia nel difetto di cultura scientifica delle élites italiane, in gran parte formatesi al classico.
In questo modo crede di potersene chiamare fuori: crede di potersi dissociare dal modello culturale borghese, come se non fosse anche suo.
Non vede che l'arroganza della "ragione" (quell'uso dei numeri e delle formule come strumento per tacitare il dissenso, di cui è campione) è anche essa una componente del modello culturale borghese.
Non vede che la distinzione tra "opinioni" e "fatti" è una superstizione borghese, che il "diritto allo studio" è un feticcio borghese, che la "cultura" è un privilegio borghese, e che questo vale anche per la cultura "scientifica".
Intuisce che gli "interessi culturali" sono consumi di lusso, e lo scrive, ma non arriva a riconoscere che sono investimenti posizionali; e crede di poterli dividere in due famiglie, quelli umanistici (improduttivi e voluttuari) e quelli scientifici (produttivi e funzionali).
Non vede che la "cultura" (borghese) è lo strumento con cui una classe dominante giustifica la propria egemonia e la pretesa di vivere di rendita sul lavoro degli altri.
Fa tanta confusione e purtroppo è troppo presuntuoso per accettare critiche, ma il coraggio di dire quello che pensa lo ha, ed ha il merito di riconoscere il cuore del problema (il liceo) anche se non capisce perché.
Un che capì meglio di Boldrin fu Benito Mussolini (che stupido non era), il quale, otto anni dopo aver definito la riforma Gentile "la più fascista delle riforme", si era completamente ricreduto su di essa, e nella seduta del Consiglio dei Ministri del 18 marzo 1931 (riportato da De Felice) disse lapidariamente che quella riforma era stata "un errore, dovuto alla forma mentis dell'allora ministro", in quanto "trasmette valori borghesi, e produce troppi laureati".
Esattamente quello che ho sostenuto io qui.
E qui allora è necessario ribadire questa importante precisazione. La storia del fascismo è largamente ignorata in Italia, dove si tende a usare la parola "fascista" un po' a casaccio per squalificare tutto quello che non ci garba. Il fascismo non fu mai un movimento borghese, fu anzi un movimento anti-borghese: nacque proprio come violenta reazione antiborghese - lo squadrismo storico - in seno al reducismo post interventista della prima guerra mondiale, poi dopo la marcia su Roma strizzò l'occhio alla borghesia finché ebbe la necessità di giustificarsi (cioè fino al 1925, e la riforma Gentile è del 1923, questo va tenuto presente) e fu sostenuto da una parte della borghesia italiana spaventata dalle agitazioni operaie dopo la rivoluzione d'Ottobre; ma nella sua essenza la "fascistizzazione" voleva essere, nelle intenzioni dei suoi fautori, proprio una "bonifica antiborghese" (con le parole del fascista Roberto Pavese, in "Processo alla Borghesia", 1939).
Se si identifica il fascismo con la borghesia si prende una cantonata doppia: non si capisce nulla del fascismo, e non si capisce nulla della borghesia.
Questa premessa è necessaria in quanto serve a stabilire quanto sia "fascista" e quanto sia "borghese" il nostro sistema scolastico. Secondo la vulgata più diffusa, infatti, il sistema scolastico italiano sarebbe "gentiliano", quindi fascista, quindi retrogrado, quindi "antiscientifico".
Ci casca anche Boldrin: leggendo il suo articolo linkato qui sopra, lui sostiene proprio questo.
Questa convinzione è tanto diffusa quanto superficiale ed essenzialmente sbagliata.
E' vero che dalla riforma Gentile in poi il sistema non ha conosciuto modifiche profonde, e rispecchia ancora quell'impianto di base. Ma si mancano di osservare due cose.
Primo, non ci si chiede come fosse il sistema stesso prima della riforma Gentile, e quindi in quali parti le sue caratteristiche siano dovute a quella riforma e in quali siano preesistenti.
Secondo, si confonde borghese con fascista - come fanno molti - per avere il governo fascista promosso quella che fu, nella parte che ci interessa, una riforma borghese; e con ciò si induce una confusione in cui incappano anche osservatori intelligenti (come Boldrin).
A Boldrin sfugge che le parti fasciste della riforma Gentile sono quelle che non sono sopravvissute al fascismo: quella che è rimasta è la parte borghese.
La riforma Gentile fu un compromesso tra le istanze di socializzazione nazionale, e fascistizzazione, del PNF e la volontà delle élites borghesi di avere una scuola d'élite capace di trasmettere valori borghesi.
Mussolini concesse a Gentile di strutturare il percorso di élite (liceo e università) secondo i suoi criteri (borghesi), per avere in cambio la possibilità di strutturare l'altro percorso (formazione professionale e scolarizzazione elementare) secondo i desideri suoi.
Dell'accordo infatti faceva parte l'introduzione del'obbligo scolastico fino alla quinta elementare, e la limitazione del numero di atenei ai 21 esistenti al 1923, con programmi comuni decisi a livello nazionale.
Secondo il piano di Mussolini, al prezzo di una piccola concessione alla borghesia (la formazione delle élites professionali) il PNF avrebbe avuto via libera nella formazione del proletariato e della classi lavoratrici. La proliferazione delle università si sarebbe arrestata a quelle già esistenti, concentrate nei centri maggiori, contenendo così il numero eccessivo di laureati (piaga antica già nel 1923 - come abbiamo visto - e nota a entrambi gli attori), e la scuola complementare avrebbe formato migliaia di giovani e preparati artigiani, pronti a essere inseriti nel tessuto produttivo italiano.
Come già si è ricordato, questo piano fallì su tutta la linea: la scuola complementare fu disertata e chiusa dopo due anni, e la nascita delle università "libere", che Mussolini non aveva previsto e non seppe contrastare, fece addirittura aumentare il numero di università (per esempio l'università libera di Firenze, dove mi sono laureato io, nacque nel 1924, un anno dopo la riforma Gentile).
Mussolini realizzò di avere commesso un errore (vedi il suo discorso al consiglio dei ministri del 1931 citato sopra) e mise in cantiere una nuova riforma, la riforma Bottai del 1939. Ma la guerra gli impedirà di completare il piano lasciando inapplicata questa legge, e le successive aperture del sistema (legge Guglietti del 1962, che unificò la scuola media e abolì gli avviamenti professionali; e legge Codignola del 1969 che creò l'università di massa) completeranno il disastro, portando alla definitiva massificazione di quel modello educativo che Giovanni Gentile aveva concepito per essere destinato a una minuscola e selezionatissima élite.
Non ne fece mai neppure mistero: nella concezione di Gentile, gli studi superiori erano "aristocratici, nell'ottimo senso della parola: studi di pochi, dei migliori", con le sue stesse parole.
Questo modello era stato concepito da Gentile (senza nemmeno nasconderlo, come si vede) per essere impartito ad una piccolissima élite, che aveva nelle rendite di posizione (capitale economico, posizionale e relazionale) la base sicura della propria sussistenza economica.
Ecco l'errore che stavo cercando da tempo: abbiamo distribuito a tutti un modello culturale da signori, identificando la "cultura" con la cultura borghese, e come risultato si è prodotto questo disastro. Si è impartito a tutti un
tipo di formazione concepita per essere d'élite, che insegna a "pensare da
signori" con la felice espressione di Illich, cioè costruisce un gusto borghese e una sensibilità borghese,
trasmette valori borghesi, infonde il disprezzo (borghese) per le
attività pratiche e per la vita di paese, trasforma in "bisogni" quelli
che sono solo raffinati consumi di lusso, e rende gli "interessi
culturali" borghesi gli unici interessi che un uomo degno possa
coltivare.
Quello che non abbiamo capito è che "democratizzando" un modello educativo così palesemente elitario non si fa star meglio proprio nessuno. Non si "apre" nulla, così, al contrario si chiude quella piccola porta aperta alla mobilità sociale che poteva esserci nel sistema.
Si producono solo "disagiati", frustrati, alla fine infelici. Perché non è che quando hai imparato il linguaggio dei signori, allora sei diventato signore. Quello che ti rende signore non è mica il linguaggio, e non è neppure il titolo nobiliare da solo, è il feudo, il vitalizio, il patrimonio, il diritto di corvee. Il linguaggio dei signori serve ai signori (ma a quelli che sono già signori, e ci sono nati o lo sono diventati per altra via) per riconoscersi in società; se lo insegni a un poveraccio gli fai il più sadico degli spregi: lo trasformi in un infelice, potenziale assassino oppure suicida.
Ma noi abbiamo creduto che questa "cultura" fosse un veicolo di emancipazione sociale, addirittura
un mezzo di produzione della ricchezza; mentre è uno
strumento di consolidamento sociale, e un mezzo di giustificazione di una
ricchezza acquisita.
Così abbiamo pensato che bastasse dare istruzione a tutti, per esser tutti ricchi. Siamo caduti, noi borghesi stessi, nella trappola della finzione borghese.
E in questo modo abbiamo creato i presupposti non solo per l'avvento della generazione dei "disagiati" di Ventura, ma anche per il disastro economico, e forse per l'estinzione di un intera civiltà.