giovedì 18 febbraio 2016

La filosofa femminista e la madre surrogata



Riferito a questa Intervista a Sylviane Agacinski, messaggio da parte di una madre surrogata di fantasia.

A te, celebre filosofa femminista che dall'alto della tua "consapevolezza" vieni a insegnarmi la vita, io madre surrogata ora voglio dire due parole.
Tu ti credi superiore a me. Tu credi che la mia scelta di affittare il mio utero non sia mai una "libera" scelta.
Che sia dettata da necessità, disperazione o sopruso, "dal bisogno, oppure dal marito", e pure (anche se non lo scrivi) un pochino dalla mia ignoranza e grettezza; dalla mia pochezza intellettuale, che è anche un poco pochezza morale. La mia mancanza di mezzi culturali sarebbe ciò che mi impedisce di vedere - o di prevedere - il male che faccio e me stessa, vendendo una parte del mio corpo e facendomi usare come una incubatrice umana.
Come la prostituta, io sarei una "vittima inconsapevole di un sistema" che pensa le donne e soprattutto il loro corpo come oggetti; delle merci, che possono essere oggetto di una compravendita; dei "mezzi di produzione di bambini", degli "animali da riproduzione"; ed i bambini come dei prodotti, che possono essere ordinati e saldati come delle scarpe su misura.
Tu mi spieghi come la vita privata della madre surrogata, compresa quella sessuale, la sua dieta, le abitudini personali, sia parte del "contratto" e per nove mesi sia posta sotto controllo e sotto sorveglianza.
E concludi quindi che "nella maternità surrogata non passa alcuna libertà femminile. Queste pratiche sono solo fonte di sofferenza per le donne".
Quelle come me, quindi, sono solo "vittime di un sistema che non hanno contribuito a creare".
Un sistema in cui degli stronzi viziati benestanti - omosessuali o meno - che appartengono "alle classi sociali più agiate e ai Paesi più ricchi, comprano i servizi delle popolazioni più povere su un mercato neo-colonialista.
Se il mercato della procreazione non fosse costruito da tutti quelli che vi traggono un lucro, ovvero le cliniche, i medici, gli avvocati e le agenzie di reclutamento, a nessuna donna verrebbe mai in mente di guadagnarsi da vivere facendo bambini”.

Bene, io a te voglio dire questo. Tu che cianci di diritti e di uguaglianza e poi di donne e lavoro, di "donne lavoratrici" e di "operaie", tu non hai mai lavorato. Tu non hai mai provato cosa significa alzarsi alle sei e salutare i bambini quando ancora dormono, per arrivare in tempo per il turno delle sette; indossare la tuta le dotazioni di sicurezza e le cuffie antirumore; ed impugnare la saldatrice in catena di montaggio. Fermarsi al suono della sirena delle 10:15 per la pausa caffé di dieci minuti, e usarla per fare una telefonata a casa. Indossare di nuovo le cuffie e rientrare in catena di montaggio fino alla pausa pranzo. Togliere le dotazioni di sicurezza e fare la coda al servizio mensa, mangiare (male) nella sala rumorosa, appartarsi per un'altra breve telefonata a casa, e poi indossare di nuovo le cuffie e saldare in produzione fino alle 17:00. Spogliarsi nello spogliatoio comune, raggiungere il parcheggio guidare per un'ora. Fermarsi per prendere qualcosa per cena, e arrivare a casa alle 19:00.
Tu non sai cosa si prova, quando la sera i bambini ti saltano addosso per giocare con te, ma le tue braccia tremano e non riesci a tenerli in braccio, gli occhi sono stanchi e la schiena ti fa male. Non sai niente di tutto questo.
Una madre surrogata affitta il suo utero come una prostituta affitta la sua figa? Certamente.
Forse che io non affitto parti del mio corpo nel lavoro che faccio, tutti i giorni otto ore al giorno, dai miei venti anni quando sono entrata fino all'età della pensione, a sessantacinque anni se mai ci arriverò? L'utero e la figa sono le uniche parti del mio corpo che non affitto. Ma affitto le mani e le braccia, i piedi le gambe e la schiena, i polmoni e le reni, e gli occhi e il naso e le orecchie. E per pochi spiccioli. Quindi, visto che ho 30 anni e posso farlo, visto che dopo dieci anni di questa vita di merda non ne posso più, e visto che ho già tre figli e so come si fa, io ho scelto di "affittare il mio utero" ad un tizio omosessuale e ricco, uno che non conosco che vive in un altro continente.
E' prostituzione? Se ti piace chiamarla così chiamiamola così.
Ma è una scelta.
Ho fatto i miei calcoli. La retribuzione della pratica, qui in Canada (sono canadese, non indiana), è formalmente vietata, ma è previsto un "rimborso spese" da 30.000 dollari, che a me fanno molto comodo. Con questi (più gli altri che quello mi passerà sotto al tavolo) posso licenziarmi, ritrovare il tempo da passare con i miei bambini e le energie per occuparmi di loro. Se ce la farò. Se ce la farò, certo, perché io sono madre, e lo so benissimo, lo so meglio di te presuntuosa che sei, cosa si prova quando si ha un bambino dentro la pancia e si sentono i suoi calcetti. Non c'è bisogno che me lo spieghi tu, lo so, e l'ho messo in conto. So benissimo che resterò con una cicatrice sanguinante nella mia anima, che mi accompagnerà ogni giorno della mia vita futura. So benissimo che soffrirò e piangerò, e so anche che potrei non farcela a separarmene, che mi sentirò indegna e schifosa quando dopo aver partorito e tenuto in braccio il piccolo per alcuni giorni, lo consegnerò a quello stronzo in cambio di un assegno.
Si hai capito bene, ho detto stronzo. Siamo d'accordo con lui e con quell'altro che faremo la recita degli "amici" e ci faremo delle fotografie tutti belli sorridenti, fa parte del contratto, ma qui non ho bisogno di fingere. Come qualcuno si beva che una donna possa offrire il suo utero in prestito così, gratuitamente e per simpatia, a un tizio straniero che nemmeno conosce, io non lo so e nemmeno mi interessa scoprirlo.
Mi servono quei soldi, è evidente. Ma a te dico solo che non è per "mancanza di strumenti culturali" che io faccio questa scelta. Ho tre figli, e gli strumenti culturali per capire una maternità ne ho quanto te e forse più di te. E non è neppure per "bisogno", giacché già ho un lavoro retribuito a sufficienza da consentirmi di vivere e di far vivere dignitosamente i miei figli.
La faccio perché giudico questa la migliore tra le opzioni che ho.
Quindi la mia è una scelta libera: dolorosa sì, ma libera. O almeno è tanto "libera" quanto lo è qualunque scelta che facciamo nella vita, ogni quando dobbiamo pescare una carta da un mazzo di opzioni possibili, tutte con aspetti spiacevoli.
Ogni scelta infatti, compresa quella di lavorare in fabbrica, è libera solo nella misura in cui è operata senza coercizione tra le opzioni disponibili, nella piena consapevolezza di tutte le implicazioni e conseguenze.
Quella che "non ha gli strumenti culturali" per confrontare questa scelta con la mia alternativa, quella sei tu, che hai vissuto nel privilegio, non hai mai visto una catena di montaggio e non sai nemmeno cos'è il becco di Bunsen.

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