Mai quanto in questo periodo di isolamento sociale si era sentito parlare così spesso di Comunità. Eppure la parola Comunità è sempre sospetta, nel sentire comune come nei discorsi dei nostri intellettuali, o aspiranti tali (più che mai negli aspiranti) i quali la schivano accuratamente e con malcelato fastidio. Forse quindi è questo il momento giusto per proporre una riflessione su di essa.
La Comunità è un tema complesso e assai controverso, che è difficile dibattere serenamente all'interno della nostra società borghese perché questa ha costruito una fortezza attorno al suo totem - l'individuo - lungo un periodo di ben quattrocento anni, rendendo sacrileghi anche solo i termini che dovremmo usare. Sono accettate critiche all'egoismo e al narcisismo, che sono forme deviate, degeneri dell'individualismo borghese, ma che questi siano da deprecare siamo facilmente tutti d'accordo; mentre l'individualismo è terribilmente difficile da mettere sotto inchiesta, e precisamente perché - qui nella nostra civiltà - si tratta di un valore. Nella coscienza collettiva borghese (sintesi per liberal-borghese occidentale moderna) esso è avvertito come una conquista irrinunciabile delle civiltà "sviluppate", un elemento fondamentale della virtù, e quindi come un principio da difendere.
Uno dei più noti pensatori contemporanei, Charles Taylor, fa la storia della comparsa e del consolidamento di questo concetto/principio nella società occidentale e nella storia del pensiero, lungo gli ultimi quattro secoli (
Il disagio della Modernità, 1991, specialmente i primi due capitoli
[1]), partendo da John Locke, passando da Rousseau ed Hegel per arrivare fino a John Rawls.
Taylor evidenzia come quello che lui chiama "ideale dell'autenticità" - riprendendo la definizione da Lionel Trilling (
Sincerità e Autenticità, 1971
[2]) che aveva messo a fuoco la genesi del concetto nella storia della letteratura - ossia l'auto-realizzazione del
sé come scopo ultimo dell'uomo, la "libertà" che si auto-determina, con i fini dell'essere umano che scaturiscono dall'interno, senza "condizionamenti" esterni, eccetera, siano i costituenti di un principio
positivo, che è addirittura un elemento fondativo della coscienza moderna: un vero e proprio
dovere, per l'uomo contemporaneo.
Quello che avverte ancora il dovere di uniformarsi nella condotta a qualche principio esterno, di obbedire a leggi morali che sono poste al di fuori di lui, quello è un "povero di spirito", un "debole", un rappresentante delle deprecate "masse" che si lasciano abbindolare da personalità più forti, o dalle pressioni psicologiche del potere.
Ciò che occorre spiegare è ciò che è peculiare della nostra epoca. Il punto non è soltanto che gli esseri umani sacrificano i loro rapporti, rinunciano ai figli, per inseguire le loro carriere: qualcosa del genere è forse sempre esistito. Il punto è che oggi molti si sentono chiamati a fare questo, sentono che debbono comportarsi così.
Non è che l'ideologia dell'individuo, o ideale dell'autenticità nei termini di Trilling, sia del tutto da buttare via, ha degli aspetti positivi - dice Taylor - in particolare perché responsabilizza; ma procura disagio all'uomo moderno perché lo priva di uno "sfondo morale" intelligibile, e rende precari tutti i suoi significati morali. L'etica infatti è inter-soggettiva per definizione: un'etica che pretenda di essere auto-determinata si rivela fatalmente auto-contraddittoria, quindi vuota di significato.
Taylor teorizza la distinzione tra autenticità della maniera e autenticità della materia, cercando di recuperare per questa via gli orizzonti di significato in una dimensione inter-soggettiva. Ma qui si entra nella riflessione di Taylor. La mia riflessione vuole prendere un'altra via, molto più semplice. Io intendo sostenere che l'ideologia dell'individuo che impera nella nostra società non è sostenibile dal punto di vista economico, e soprattutto che è innaturale dal punto di vista psichico.
Dal punto di vista economico l'analisi è molto semplice: una società dove siano tutti degli irriducibili individualisti è una società destinata all'estinzione; e dove oltre tutto sono anche quasi tutti infelici, eccettuati forse solo quei pochi ricchi che possono vivere bene anche senza alcun vincolo comunitario perché protetti dalla loro posizione economica e sociale privilegiata. Dal punto di vista psichico, invece, l'osservazione richiede uno sforzo maggiore, perché richiede di osservare le nostre strutture interiori più profonde, superando le loro inevitabili resistenze.
Ma cos'è mai questa comunità, dunque? Nella narrazione più superficiale della borghesia egemone, la comunità sarebbe qualcosa che serve alle classi popolari: cioè essa sarebbe uno strumento, utile alla vita dei meno "evoluti": i poveri di spirito, gli "inconsapevoli", quelli che sono rimasti indietro in qualche modo perché "ignoranti" di qualche cosa oppure perché non si sono mai posti domande.
Ciò che qui intendo sostenere è che comunità è invece qualcosa che attiene alla natura umana, e quindi serve a qualsiasi essere umano del pianeta, di ogni tempo e luogo. Ma è meglio dire che fa parte di lui, non che gli serve, come il cuore o il fegato fanno parte di noi e non semplicemente ci servono. Intendo sostenere che esiste una componente innata, nella struttura psichica dell'essere umano, che tende naturalmente verso di essa: una cosa che possiamo chiamare appetitus comunitario, che è quello che vorrei qui provare a mettere a fuoco.
Il verbo servire in questi contesti è fuori luogo e denuncia una concezione strumentale dell'etica: la comunità non è uno strumento che serve all'individuo, se mai l'individuo è lo strumento che serve alla comunità. Ma non è necessaria questa contrapposizione, non serve distruggere l'individuo per affermare la comunità: i gruppi possono esistere a fianco degli individui anche nello stesso spazio concettuale. Pensiamo, per fare un esempio banale, a quello che si fa ordinariamente nel diritto amministrativo, dove le persone fisiche coesistono con le persone giuridiche, anche sullo stesso piano ontologico. Ma per vincere il sospetto serve un lavoro lungo e faticoso, perché ci sono da superare quei bastioni edificati dalla mentalità moderna attorno al suo nucleo, di cui si diceva.
Le comunità sono state riportate in auge, nel dibattito filosofico, nella seconda metà del XIX secolo, grazie all'opera contrapposta e parallela di due grandi pensatori, due padri fondatori della sociologia: Ferdinand Tönnies ed Émile Durkheim. Tönnies ha isolato e circoscritto lo schema concettuale in Gemeinschaft und Gesellschaft (Comunità e Società, 1887)
Mentre nella comunità gli esseri umani restano essenzialmente uniti, nonostante i fattori che li separano, nella società restano essenzialmente separati, nonostante i fattori che li uniscono
In Ferdinand Tönnies in ogni civiltà umana ad una era della comunità (ascendente) segue una era della società (decadente). Anche se forme di "consociazione" comunitarie sono sempre possibili, e perdurano anche nell'era sociale - anzi tendono a risorgere spontaneamente, perché scaturiscono dalle manifestazioni della volontà essenziale, che è parte della natura umana - tornare indietro è impossibile. Secondo questo schema concettuale, una via d'uscita non c'è. La civiltà occidentale è nella fase terminale della sua decadenza, e si estinguerà; entro poche generazioni, qualunque determinazioni possa assumere, che se ne accorga o meno. Non c'è "soluzione" possibile, si può solo prendere atto del corso del processo storico, e lasciare il posto a quelli che verranno.
Sorgerà una nuova era comunitaria, certamente, ma non saremo noi a viverla.
Per queste sue conclusioni Tönnies è associato al rifiuto della modernità, e quindi a forme di primitivismo che non merita e che non gli competono. Il testo è una pietra miliare della sociologia, perché la sua schematizzazione concettuale è di quelle che per generalità e profondità si collocano fuori del tempo. È eterno, perché la sua categorizzazione ha validità universale; ma è "datato", nel lessico e nei riferimenti secondari. È facile attaccare un autore al posto della sua opera dopo 150 anni pescando la frase stonata tra i passaggi marginali, con un argumentum ad hominem. Si è usato un po' vigliaccamente questo metodo contro di lui, e lo si è associato al pensiero reazionario (un po' come Carl Schmitt nella filosofia del diritto: nessuno osa contestarne la grandezza, ma tutti fanno a gara a prenderne le distanze). Il risultato è che citare Tönnies, soprattutto in certi ambienti "liberal", è come citare il Main Kampf di Hitler alle celebrazioni del Kippur. Ma la sua schematizzazione è irrinunciabile (e quel libro deve essere letto).
Durkheim raggiunge le comunità dal lato opposto. Osserva le interazioni tra gli uomini e introduce i fatti sociali come delle unità, "rappresentazioni psichiche collettive" le chiama, che non sono la somma di fattori individuali ma devono essere pensati e osservati in sé. L'oggetto dello studio del sociologo sono quindi i gruppi sociali, che non sono affatto insiemi di individui ma entità a se stanti, dotate di vita propria, come degli esseri viventi composti da esseri viventi.
Lui chiama queste monadi "società", ma secondo lo schema di Tönnies sarebbero più esattamente delle comunità. Esistono una Coscienza Collettiva (altro concetto introdotto da Durkheim) ed una Coscienza Individuale. Le singole Coscienze sono istanze della Coscienza Collettiva, che possiamo pensare come classe genitrice con una metafora informatica, oppure minimo comune denominatore, intersezione di insiemi di valori, o anche "spirito del popolo", con la celebre espressione di Herder.
È interessante notare come i due grandi pensatori lamentarono entrambi la stessa fondamentale incomprensione delle loro opere, e quasi contemporaneamente. Nella prefazione alla seconda edizione di Gemeinschaft und Gesellschaft edita nel 1912, venticinque anni dopo la prima pubblicazione della sua opera maestra, Tönnies protesta che la sua opera sembra essere stata letta e compresa a metà: ha sollevato grandi dibattiti la sua distinzione tra Società e Comunità, mentre l'altra distinzione tra le forme psichiche da cui quelle costruzioni scaturiscono, quella tra volontà essenziale e volontà arbitratria, che pure occupa l'intera seconda metà del saggio, è rimasta inascoltata nell'indifferenza generale.
Qui è sorto il teorema della distinzione tra comunità e società e - inseparabile da questo - il teorema della distinzione tra volontà essenziale e arbitrio. Essi costituiscono due tipi di rapporti sociali - due tipi di configurazione della volontà individuale - da comprendere però da un unico punto di vista.
In quello stesso 1912, Durkheim descrive estesamente la natura e l'origine di queste costruzioni nella sua celebre opera Forme elementari della vita religiosa, ma solo due anni più tardi, nel 1914, si trova a pubblicare un breve nitido saggio, Il dualismo della natura umana, per lamentare la stessa incomprensione della sua opera centrale che lamentava Tönnies:
Nel tentativo di studiare sociologicamente i fenomeni religiosi, siamo
stati indotti a intravedere un modo di spiegare scientificamente una
delle più tipiche particolarità della nostra natura. Tuttavia, con
nostra grande sorpresa, il principio su cui tale spiegazione si fonda
non sembra che sia stato colto dai critici che hanno finora parlato del
libro.
Si tratta della stessa lagnanza riguardo alla stessa sordità. La parte della storia che la società borghese non vuole proprio ascoltare non è quella che descrive la vita comunitaria, ma quella che la collega ad una parte essenziale della natura umana. Ma la grande sorpresa di Durkheim non ha ragion d'essere, perché è invitabile che sia così. Anche quando approccia queste opere con sincero interesse e riconoscendone il valore, lo spirito borghese sempre immagina trattarsi di descrizioni di società primitive, che egli può studiare scientificamente con la lente dell'antropologo dall'alto della sua evidente superiorità culturale, come se osservasse un gruppo di scimmie. E quindi osserva le costruzioni fenomeniche, mentre non vede quelle determinazioni originarie della natura umana di cui queste costruzioni scaturiscono.
Nella genesi del concetto c'è poi anche un terzo autore, ancora più celebre, che lo raggiunge per altra via sempre piuomeno nello stesso periodo ma che di solito non viene associato ai primi due, anche se le conclusioni che trae sono soprendentemente simili soprattutto in merito a queste lagnanze sulla "parte mancante", ossia quella parte del concetto che si richiama a una componente universale della natura umana, non compresa dal pubblico perché non vuole sentirla. È Sigmund Freud nel suo Il Disagio della Civiltà, del 1929.
Qui l'ultimo Freud mette sotto indagine proprio il "sentimento religioso" (ossia lo spirito comunitario) inteso come Fons et Origo di ogni bisogno religioso, che pensa - ed è qui la potenza del concetto, per questo i tre autori si piccano tutti e tre di concentrare i loro sforzi su questo punto - come "sentimento immediato, fin da principio rivolto verso questo obiettivo" con le sue stesse parole.
Non quindi come bisogno indotto da costruzioni culturali, ma come qualche cosa di anteriore ad esse, che le produce e determina. È la volontà essenziale di Tönnies, ed è la natura duale di Durkheim, che egli ha intuito indipendentemente da questi, e che correttamente associa ai bisogno religioso universale, ma che non riesce ad associare con la stessa lucidità di Durkheim a quegli stati di coscienza che affondano la loro origine nei bisogni collettivi (di una comunità).
La Comunità nel pensiero occidentale del XX secolo ha quindi tre padri. Essa è sì un insieme di individui, ma fusi in una unità tale che essi non sono più individui ma parti di una entità superiore, una entità che è qualcos'altro rispetto alla somma delle sue parti. Voglio osservare immediatamente che ciò è logicamente concepibile, senza difficoltà; uscendo dai riferimenti filosofici si possono ricordare per esempio le molecole, che sono qualcosa di affatto differente - non solo nelle proprietà, ma proprio nella sostanza - dagli atomi che le compongono.
È difficile definire rigorosamente la comunità, ma credo che per questa, come per tutte le concezioni di base, non debba esserci bisogno di formalismi complessi se non per una sistemazione a posteriori. Le si deve poter raggiungere anche direttamente con l'intelletto, per mezzo di esempi, come cercherò più avanti di fare. Cerco comunque di dare la mia definizione di comunità, e poi di illustrarla con alcuni esempi, cercando di essere più chiaro possibile.
Comunità è un insieme di almeno tre persone (escludiamo il duale) che condividono uno spazio e delle risorse vitali (un habitat), ed hanno interazioni sociali quotidiane del tipo "faccia a faccia" per un tempo sufficientemente lungo.
Questa è la mia definizione, che coincide più o meno con la definizione di gruppo sociale primario della sociologia. Poi però le comunità sono contenute le une nelle altre come matrioske: la definizione si estende anche ai gruppi sociali di ordine superiore, su fino a dove esista una condivisione di spazi e risorse, e si dia necessità di interazione. È una entità distinta rispetto all'insieme degli individui che la compongono. È riconoscibile, e tenuta insieme da vincoli linguistici, culturali, simbolici, economici, talvolta religiosi. Certamente Sparta era una comunità, e certamente il linguaggio fa parte dei vincoli comunitari: come possono avere relazioni sociali quotidiane, persone che non si capiscono. Nel nostro tempo e nei nostri luoghi le comunità più forti sono le comunità di paese e i rioni delle piccole città; le più deboli si hanno nelle grandi città, nei templi borghesi delle grandi metropoli. Le caratteristiche identitarie sopra descritte sono riscontrabili non solo a livello di gruppo primario ma anche ai livelli superiori, fino al livello dello stato nazionale, anche se in misura progressivamente più debole, come è testimoniato da fatto che tutti gli stati nazionali moderni si sono dati una
lingua ufficiale, fissata nella legge ordinaria o addirittura nella Costituzione.
Qui è necessaria una digressone importante. Lo stato nazionale fu il tentativo romantico di estendere allo stato il principio identitario tipico delle comunità: una costruzione ardita - eroica, come era nello spirito del tempo - che poi è divenuta reietta in seguito allo scontro tra nazioni del secolo passato e alle sue nefaste conseguenze. Ma è questo il tentativo più importante di far coincidere comunità e società compiuto dalla Modernità. Gli stati nazionali vengono vilipesi perché li si associa ai balordi nazionalismi che hanno insanguinato l'Europa nel secolo scorso, ma non hanno ancora esaurito la loro funzione storica. Si afferma superficialmente che sono un relitto del passato, ma non abbiamo ancora trovato
nulla di meglio con cui sostituirli: l'idea di Nazione, come albergava nei cuori di Mazzini o Garibaldi, non servì soltanto a giustificare guerre e soprusi, servì per affermare le libertà dei popoli e soprattutto servì come supporto ideologico della società delle nazioni - cioè della nostra società - ed è tuttora fondamento delle nostre strutture politiche.
Ma la demonizzazione dello stato-nazione è anche, sottotraccia, una conseguenza
proprio della sua componente identitaria: la nazione istituisce dei vincoli di
tipo comunitario (vincoli impliciti, extra-giuridici) che sono avvertiti
dall'individualismo borghese come fastidiosi impicci. La civiltà
borghese nella sua narrazione li chiama "limitazioni della libertà
individuale", senza rendersi conto che proprio quelle limitazioni sono
necessarie per l'affermazione delle libertà politiche. Qualunque
forma di governo diversa dalla tirannide presuppone l'esistenza di un
nucleo di valori condivisi da parte dei governati, e l'estensione di
questo nucleo è proporzionale all'estensione delle libertà politiche che
si possono concedere: la democrazia moderna è resa possibile dalla
precedente affermazione di una solida identità linguistica, culturale ed
etica, che deve coincidere con l'unità territoriale di quella civiltà
giuridica. Nell'Europa occidentale come si è sviluppata tra il
Congresso di Vienna e il Trattato di Versailles questa unità si costruì
intono al concetto di stato nazionale. Una costruzione positiva,
"artificiosa" certamente, quanto ogni schema concettuale, ma utile alla
formazione di unità che fossero allo stesso tempo sufficientemente
estese da potersi difendere, e sufficientemente omogenee da potersi
concedere una forma di governo democratica. La diffusa associazione di idee che mette "nazione" accanto a
"tirannide" è una sciocchezza: le dittature sono possibili anche senza
lo stato nazionale, la democrazia no.
Ma la civiltà borghese - accecata dal suo individualismo totalizzante - tende a squalificare tutte le identità collettive: le pensa come qualcosa di solo negativo, in generale di "arretrato", mentre sono le fondamenta su cui si appoggia il costituzionalismo, e quindi anche la democrazia moderna. Quei politologi che sulla scia di Samuel Huntington osservano come oggi abbiamo a che fare con una serie di stati-civiltà - per tutti Cina ed India - che offrono un nuovo modello di organizzazione politica, mancano di rilevare come la dimensione di Huntington sia troppo estesa perché possa conservare i presupposti dello stato-nazione in termini di omogeneità culturale e linguistica, almeno in Europa. Sono europeista e credo che l'Europa dovrebbe compattarsi andando
verso una forma amministrativa federale o confederale, in particolare
con l'obiettivo di dotarsi di una difesa comune, e di una politica estera
comune. Ma l'Europa non è sufficientemente omogenea da potersi dare una
forma statuale, e neppure super-statuale (come gli Stati uniti
d'America, che di fatto sono più un super-stato che una federazione di
Stati, ma sono facilitati dall'unità linguistica e da una superiore
uniformità culturale).
Può darsi che sia possibile in futuro, ma
al momento attuale ancora non lo è. Almeno finché questa omogeneità culturale, valoriale e linguistica non
sia stata costruita, ma servono diverse generazioni, ammesso che ci si
riesca e che si stia andando in questa direzione, la federazione/confederazione
europea può solo appoggiarsi sopra un insieme di perduranti legislazioni e sovranità nazionali.
Si deve però anche riconoscere che quando si estende a gruppi sociali di ordine superiore, peggio quando si fonde col concetto di "Stato", la Gemeinshaft può dare origine a mostri.
Il principio identitario delle comunità ha la sua origine naturale nel gruppo sociale primario. L'estensione di questo principio a gruppi di ordine superiore è possibile e produce unità sempre più potenti, ma al contempo sempre più instabili e pericolose. Proprio come avviene con le molecole, per restare nella metafora. Trovandomi tra ultra-libertari che fanno a gara nel superarsi per individualismo mi sono spesso trovato a sostenere tesi comunitariste, attingendo al riferimento aristotelico fondamentale
καὶ ὅτι ὁ ἄνθρωπος φύσει πολιτικὸν ζῷον
ma mi accorgo che quando a sostenerle è qualcun altro mi fanno paura. E l'origine della mia paura non è nel controllo sociale. C'è un altro pericolo, ancora più grande. Mentre l'individualismo della civiltà moderna è almeno nominalmente compatibile con un ecumenismo universale, il comunitarismo non lo è. L'idea di estendere la comunità all'intero genere umano per renderla compatibile con la pace universale, contraddice le sue premesse: il limite della comunità e istintivamente percepito come il confine con l'altro. Senza un'alterità contro cui fare blocco, il sentire comunitario non si dà: l'umanità non è un gruppo. Solo un evento come un attacco alieno potrebbe forse indurla a pensarsi come tale, come l'attacco dei persiani unificava le polis greche. Ma subito dopo Salamina, queste tornavano alla consueta lotta una contro l'altra: il sentimento comunitario conduce dritto alla guerra.
Questo fatto non turbava Aristotele. Per lui era ovvio che la necessità di combattere fosse parte della natura umana, tanto quanto l'essere animale politico. E forse è davvero così. Ma a me, uomo del 2020, l'idea che la pace perpetua sia stata una illusione Kantiana, e che gli uomini per essere tali debbano tornare a scannarsi come hanno sempre fatto, perché questa è la loro natura, mette un poco paura.
Una allerta importante quindi va mantenuta su questo punto: il comunitarismo contiene la guerra. Se si auspica un percorso verso quella direzione, ed il recupero delle identità nazionali come contenitore comune capace di unire le strutture informali dello stato con il sentimento di appartenenza delle comunità, dobbiamo essere consapevoli del pericolo che esse contengono. Per darsi la comunità necessita di una alterità nemica, non sono sufficienti i legami interni e le risorse condivise. Non può esserci una comunità sola, perché a rendere impellenti i simboli identitari agli uomini è precisamente l'esistenza di un altro, cui quell'identità non appartiene.
E se anche così non fosse, è sicuro perlomeno che la comunità è necessariamente ostile alle comunità altre con cui viene in contatto, e nei suoi confini viene per forza con esse in contatto.
Ma torniamo ora alle comunità. Non voglio trattare oltre il concetto di Nazione, né per farne apologia né per attaccarlo, perché ci allontaneremmo troppo dal topic. Preciso solamente che Nazione non è comunità, è il prodotto dell'ibridazione tra comunità e stato moderno; rimando a Federico Chabod,
L'idea di Nazione, 1961
[3], e torno a quello che mi interessa.
Come si diceva la comunità offre protezione e sicurezza, ma pretende in cambio abnegazione e sacrifici dai propri membri.
Per questo è per essi un pesante fardello: non consente a nessuno di chiamarsene fuori; pretende tributi, e pretende servizio di corvee; pretende che si renda omaggio ai suoi totem, che si officino i suoi riti, che si trasmettano le sue memorie; pretende accettazione esplicita delle sue condizioni di appartenenza, per mezzo dell'assimilazione e della riproduzione dei suoi simboli identitari. Pretende la rinuncia al principio individuale.
Il "comunitarismo" quindi non è affatto attraente, anzi, è una gran rottura di coglioni. Quello che sostengo dunque è che la comunità è sì una scocciatura, ma è una scocciatura di cui si può fare a meno solo se si è ricchi a sufficienza da poterselo permettere.
Il modello culturale borghese è un modello d'élite, per questo rifiuta con disprezzo le istanze comunitarie. Può farlo perché è d'élite, ma quando si massifica - e negli ultimi 30 anni, in occidente, lo si è massificato - emerge drammatica la contraddizione tra l'individualismo borghese, che sentiamo una "conquista" irrinunciabile, e la sua sostenibilità economica. Ecco perché affermo che dovremmo riconsiderare questo tratto, perché è quello che più degli altri rende insostenibile il nostro modello culturale. È questo il motivo per cui non facciamo più figli: siamo prigionieri di un modello culturale che rende i figli troppo costosi. Se non lo riconsideriamo ci estingueremo, con noi si estinguerà pure il nostro modello culturale, e con esso le sue belle conquiste, compreso il suo irrinunciabile individualismo. Qui c'è una chiara contraddizione: l'individualismo massificato ha raggiunto quel limite oltre il quale diventa autodistruttivo: deve emendarsi, oppure rassegnarsi a scomparire.
Ma avevo scritto che il concetto di comunità può essere raggiunto anche direttamente, per mezzo di esempi.
Per dire cosa sia (per me) comunità, provo quindi a portare degli esempi. Farò due esempi.
Il primo esempio è tratto dalla mia esperienza di vita (i fatti e le persone citate non sono reali, sono un po' camuffati, ma potrebbero esserlo).
Poi farò un secondo esempio che tenta di partire dalle origini, la genesi della comunità nelle società primitive alla maniera degli antropologi culturali, per intuire la scaturigine del senso comunitario e con essa la sua ragion d'essere.
Partiamo dal primo.
Nacqui in una famiglia mezzo-borghese, con padre avvocato, e madre impiegata proveniente da una famiglia contadina, nella piccola città di Arezzo in Toscana. Mio padre morì quando ero bambino, e la mia famiglia dovette fare i conti con una situazione mutata all'improvviso. Mia madre lavorava in un supermercato, e spesso entrava al lavoro alle 6 o alle 7 del mattino, avevamo solo una nonna che era troppo anziana per accompagnare a scuola me e mio fratello. Quindi mi trovai ad andare a scuola da solo, all'età di dieci anni, tenendo per mano anche mio fratello che ne aveva 8.
Oggi raccontando questa storia mi sento dire che "non si potrebbe più fare", perché "il mondo è cambiato", perché "ci sono tanti pericoli", e ovviamente.. "perché ci sono tanti extracomunitari". Questa ultima cosa in verità non si dice mai, perché suona "razzista", ma si pensa, però.
E i bambini di otto anni a scuola da soli non ce li manda nessuno.
Soffermiamoci un attimo a riflettere. Davvero gli stranieri che sono presenti ad Arezzo (sono molti in effetti) rappresentano un pericolo grave per un bambino di otto anni che va a scuola da solo? Davvero i pericoli per quel bambino sono ora molto maggiori di quelli che potevano esserci trentacinque anni fa? Razionalmente, io credo di no. Credo che se qualche pericolo può esserci, non sia tanto diverso da quelli di ieri. Dunque, è solo "razzismo" quel sentimento che sprigiona una paura che è in realtà tutta irrazionale, insensata, illogica?
Per rispondere, torno con la memoria a quel tragitto verso la scuola elementare, che facevo tenendo mio fratello per mano. Lo ricordo come se fosse ieri.
Usciti dal portone di casa e svoltati a sinistra percorrevamo la via San Niccolò per 50 metri. Dalla finestra del primo piano della casa davanti alla nostra, ci osservava e ci salutava la signora Ferruzzi, una casalinga che alle 8 di mattina sparecchiava la colazione e passava molto tempo affacciata alla finestra. La signora Ferruzzi ci seguiva con lo sguardo fino all'incrocio con via Pellicceria. Svoltata la curva uscivamo dal suo campo visivo, ma entravamo in quello della signora Donata. La Donata, che aveva una merceria nell'angolo con via Fontanella, era una gran fumatrice e quando non aveva clienti nel negozio (quasi sempre) stava in piedi fuori dalla porta a fumare, con ogni stagione. Ci diceva "buongiorno ragazzi!" e ci seguiva con gli occhi finché non ci avvicinavamo alla bottega di frutta e verdura della Mafalda, sessanta metri più avanti. Con uno sguardo di intesa fra lei e la Mafalda avveniva il passaggio di consegne. La Mafalda movimentando le sue cassette di verdura ci osservava fino all'incrocio successivo con via della Minerva. Da qui poteva vederci Pasquale, burbero meccanico di vespe che non salutava nessuno e faceva finta di non conoscerci, ma mentre armeggiava con i motorini in fila fuori dall'officina ci seguiva con la coda dell'occhio fino all'ingresso della scuola.
Questo avveniva ogni mattina. Se avessimo deviato, o se qualcuno ci avesse avvicinato, uno di questi dato l'allarme.
Io e mio fratello non andavamo davvero a scuola da soli. Ci accompagnavano loro.
Ecco, questa era una comunità. La comunità del quartiere storico e popolare di Colcitrone di Arezzo, di 35 anni fa.
E questo è un esempio dei servizi che la comunità offre gratuitamente a quelli che ne hanno bisogno, tra i suoi membri. In assenza di essa, questi servizi dovrebbero essere erogati dalle strutture assistenziali della pubblica amministrazione; il che non è possibile, per ragioni di costo e per ovvie ragioni di possibilità pratica.
La comunità richiede che ci si conosca, ovviamente che si parli la stessa lingua, non necessariamente che ci si voglia bene, ma sicuramente che ci si "impicci" gli uni degli altri: tutti quelli che vivono in prossimità sono chiamati a farne parte ed a contribuire; non è ammesso che qualcuno se ne infischi, che si tiri indietro, che si "faccia gli affari suoi" con i termini cari all'individualista (borghese), anzi il "farsi gli affari altrui" nella comunità è un dovere.
È tutto questo un male? Per chi può permettersi di farne a meno, forse sì. Se ci fosse stato mio padre ad accompagnarmi a scuola in macchina, quei vicini impiccioni che ti osservano dalla finestra sarebbero stati solo un fastidio. Ma ho avuto modo di vedere, e di capire, a cosa serve, lo spirito comunitario, e per questo dico che chi lo disprezza si sbaglia.
Veniamo al secondo esempio, che ci offre più spunti del primo.
Consideriamo una tribù di Uomini di Neanderthal, anno 30.000 a.C.
Ora la prendo un po' alla lontana, abbiate pazienza.
Di fronte a esempi come questo che sto per fare ho sentito obiettare che gli autori che li usano (che spesso sono antropologi culturali) facendo partire le loro analisi da società "primitive" - come le tribù samoane che vengono spesso citate a questo scopo - le renderebbero viziate da un "difetto" di partenza che renderebbe le loro conclusioni inattuali rispetto alla nostra società (cioè alla civiltà borghese). Ciò da lo spunto per smascherare un'altra delle mistificazioni della finzione borghese.
L'etichetta di primitivo è uno dei grimaldelli con cui la mistica borghese ha tentato di scardinare il sentire comunitario, negandogli il diritto di esistere.
Le considerazioni del sociologo che indaga le relazioni sociali fondamentali traggono sempre spunto dal gruppo sociale primario, perché questo è il luogo della loro origine.
E il gruppo sociale primario non è "primitivo", è presente ovunque ci siano almeno tre persone che condividono lo stesso spazio vitale ed hanno relazioni face-to-face per un tempo sufficientemente lungo.
Per metterle a fuoco quindi una tribù samoana o anche una tribù di Neanderthal sono più utili della borghesissima società multietnica newyorkese, che finge di non averne bisogno, mentre è il pyramidion issato su un obelisco di sfruttamento che ipocritamente rifiuta di vedere.
Respinta l'obiezione, torniamo dunque ai nostri Neanderthal che rappresentano un magnifico punto di osservazione.
Sono trecento individui: uomini, donne e un po' di bambini e vecchi. Vivono di caccia, e si devono difendere dai predatori, dal freddo, e dai gruppi concorrenti.
Questo in sociologia si chiama gruppo sociale primario. È il luogo d'origine dell'Etica. I
gruppi sociali poi sono contenuti gli uni negli altri: più gruppi primari
formano un clan, molti clan formano una tribù, molte tribù formano un
popolo. Il gruppo più grande di tutti lo chiamiamo civiltà. Attenzione: l'Umanità non è un gruppo.
Il gruppo sociale ha ovviamente delle esigenze di gruppo, che si differenziano da quelle individuali, dei singoli soggetti del gruppo stesso.
Tra queste, due sono le principali.
1) Combattere.
Il singolo soggetto non ha interesse ad andare "in guerra": nell'ottica individuale, è sempre più conveniente lasciarlo fare agli altri. Ma il gruppo per sopravvivere come gruppo ha bisogno di combattere, e quindi è necessario che i suoi membri siano disposti a farlo, sacrificando anche la propria vita per la sopravvivenza del gruppo, che devono avvertire come bene superiore.
2) Riprodursi.
Il gruppo ha bisogno di essere continuamente rinsanguato. Tutti i membri hanno dunque il dovere di fare ognuno la propria parte per fornire il necessario ricambio, e anche qui, sacrificando la propria individualità, in certi casi anche la propria vita (i neanderthal muoiono di parto) alle superiori esigenze del gruppo.
Faccio notare che tutte le altre esigenze della tribù dei Neanderthal vengono dopo. Anche quelle impellenti come "procacciare il cibo", "trovare l'acqua", "procurare o costruire un rifugio" "difendersi dalle belve" sono secondarie, rispetto alle due principali. La tribù che non si riproduce infatti si estingue immediatamente, quella che non combatte viene immediatamente annientata.
Se invece una volta non si trova il rifugio, si può dormire all'aperto; se la caccia va male, si possono raccogliere radici, o per un giorno digiunare; se si viene sorpresi dalle belve, queste uccideranno solo alcuni individui e poi sazie si ritireranno.
I danni sono più contenuti: Il gruppo sopravvive.
Questo gruppo dell'esempio è composto da trecento uomini di Neanderthal di sesso misto, piccoli e anziani, ed ha alcune esigenze, enumerate sopra.
Ci sono esigenze di gruppo, esigenze individuali, ed esigenze di gruppo/individuali.
L'esigenza di procurarsi il cibo con la caccia, per esempio, è di gruppo e individuale insieme.
L'esigenza di combattere il gruppo dei Sapiens che attacca, è solo esigenza di gruppo. Dal punto di vista individuale, combattere contro i Sapiens è una battaglia persa: hanno archi e frecce, con le nostre clave andiamo a farci infilzare. Sarebbe conveniente quindi per me, singolo Neanderthal di nome Ernesto, restare nella caverna e mandare gli altri. Anche perché tengo famiglia, ho "moglie" e sette piccoli (i Neanderthal facevano molti figli).
Chi me lo fa fare di lasciarli per andare a immolarmi contro le frecce?
Il senso del dovere.
Cos'è (o cos'era)? Abbiamo presente la letteratura epica?
Cosa rende eroico il gesto di Ettore che va a ad affrontare Achille, ben sapendo che non può vincere? Cosa dice ad Andromaca?
ma de’ Troiani io temo
Fortemente lo spregio (..) se guerrier codardo
Mi tenessi in disparte, e della pugna
Evitassi i cimenti.
Ah nol consente,
No, questo cor.
Il gruppo sociale, dei Neanderthal come dei Troiani, sopravvive se e solo se nelle coscienze, ossia negli individui che lo compongono, è presente un nucleo di valori che pone l'interesse di gruppo al di sopra dell'interesse individuale, tanto forte da fargli vincere la paura della morte e spingerli al sacrificio di se stessi. Non so nulla dei sistemi di Valori dei Neanderthal, non so come fossero, ma so come non potevano essere: individualisti. Se lo furono mai, lo furono tra le ultime generazioni giusto prima dell'estinzione. Qui ho citato l'Iliade attingendo alla letteratura greca, ossia al sentire di una civiltà tra le più comunitarie che il mondo abbia conosciuto, per cercare di evidenziare cos'era che spingeva gli uomini del passato verso condotte sconvenienti dal punto di vista egoistico.
Si dirà quindi "sostenibile" un sistema di valori se e solo se può essere esteso a tutti i membri del gruppo, senza condurlo all'estinzione.
La nostra civiltà ha perduto consapevolezza della natura sociale degli esseri umani: galleggia in un sistema di valori che - se non è male interpretato - non è in grado di ottemperare alle due esigenze fondamentali ai fini della sopravvivenza dei gruppi sociali, che sono sempre queste due, in ogni tempo e luogo: combattere e riprodursi. Il sistema di valori borghese, ora che si è massificato, ci sta conducendo all'estinzione e dunque per definizione non è sostenibile.
Tiriamo le somme. Come dalla definizione iniziale, le comunità umane non coincidono con la somma degli individui che le compongono: esse sono "entità organiche", con i termini G.E. Moore, di livello superiore. Accanto all'Identità Collettiva esistono una Volontà Collettiva, un istinto di sopravvivenza collettivo ed un insieme di Doveri Collettivi che tendono a preservare la comunità, servendo le sue esigenze collettive.
Queste esigenze collettive talvolta coincidono con quelle individuali, e talvolta possono essere collegate indirettamente a talune esigenze individuali.
Ma si danno anche dei casi in cui non collimano con nessuna esigenza individuale, o sono addirittura in contrasto con ogni esigenza individuale.
Più ancora del contesto matrimoniale/procreativo ciò è evidente nel contesto bellico. Non esiste nessuna ragione logica, non c'è nessun vantaggio individuale, neppure esteso all'ambito familiare, che possa giustificare la scelta di Ettore di scendere in battaglia contro Achille, per farsi sicuramente ammazzare.
Le argomentazioni con cui Andromaca cerca di dissuaderlo sono forti della logica più ferrea. Quelle con cui Ettore spiega la sua scelta tenendo in braccio il figlioletto, invece, di logico non hanno proprio nulla. Eppure il lettore percepisce che sono queste le ragioni superiori. E la loro essenza, la ragione per cui Ettore è considerato da 2500 anni l'Eroe degli Eroi, il prototipo assoluto dell'Eroe, è che in quest'Epica si esemplifica alla perfezione un caso in cui un Uomo sacrifica la sua vita, il futuro della sua famiglia e del suo figlioletto, ad un principio superiore che consiste esclusivamente nell'osservare un dovere collettivo; e questo perfino di fronte alla certezza assoluta che sarà stato invano, perché egli non può che essere ucciso nello scontro con un semidio.
Ma non c'è scelta. Nessun calcolo di vantaggi e svantaggi è possibile. Quando la più immensa ed enorme delle tue esigenze individuali viene in contrasto con la più infima ed insignificante delle esigenze collettive, allora l'esigenza individuale si dissolve nel nulla.
Tu, singolo individuo, scompari. Re, principe, chiunque tu sia. I tuoi voleri, e desideri, anche i tuoi bisogni e necessità, e la tua libertà ed il tuo futuro, e la tua vita, la vita della tua famiglia e dei tuoi figli, valgono meno di uno sputo in mare. Tu sei niente.
Concludo con una nota di ottimismo, e poi due considerazioni finali.
La nota di ottimismo si basa sul fatto che l'individualismo moderno è il risultato di uno sforzo di auto-determinazione dell'uomo borghese, che contrasta con alcune determinazioni innate della psiche umana.
La civiltà borghese non ha potuto estirpare del tutto gli appetiti comunitari nonostante i suoi sforzi maniacali, perché l'individualismo è innaturale, e può essere sostenibile solo per pochi privilegiati ma soprattutto solo fino a un certo punto oltre al quale la natura umana si ribella.
Su questa osservazione riposano le mie tenui speranze che la società borghese possa ancora redimersi.
Il riferimento più pertinente per descrivere la caratteristica innata di cui sto parlando qui è la sympathy, o sympatheia, che David Hume descrive nel suo Treatise de Human Nature del 1739.
E ciò è doppiamente interessante, perché Hume, con Locke ed Adam Smith, è uno dei padri fondatori del sistema di pensiero liberal borghese moderno. Ma, per gusto mio, rispetto agli altri due e ai successivi ha una mente più fine, o se preferite meno intransigente, e non chiude le porte in faccia al sentire comunitario come fanno quelli.
Tuttavia Hume non è un estraneo, è uno di noi.
Se il senso comunitario è possibile in Hume, deve esserlo anche per noi.
Cioè deve essere possibile ammetterlo, senza rinnegare in toto i postulati etici della civiltà borghese.
Infine le due considerazioni.
Una, molto importante, riguarda le condizioni di appartenenza ad una Comunità.
Una volta capito cosa siano le comunità e magari una volta riconosciuto che esse non sono del tutto da buttare via, la prima domanda che immediatamente si pone è quali siano le condizioni necessarie e sufficienti per avere accesso alle comunità preesistenti.
Questa domanda è decisiva.
Le comunità possono essere più o meno inclusive, ma in genere tendono prima facie a cercare di assimilare chi desidera entrare a farne parte, dettando però le proprie condizioni.
È la famosa "integrazione" di cui tanto si ciancia ma che male si capisce cosa sarebbe, se non si pensa in termini comunitari. In un vecchio film del 1970, l'uomo chiamato cavallo, un uomo bianco, addirittura un nobiluomo inglese, si trova per accidente catapultato in una tribù Sioux - una comunità strettissima - ma dopo aver sofferto vessazioni iniziali riesce a meritarsi la fiducia ed il rispetto degli indiani, fino a divenire addirittura un capo. Deve faticare, perché la tribù Sioux pretende molto. Pretende che il nuovo arrivato prima di tutto impari la sua lingua, poi fumi il suo calumet, vesta le sue pelli, si pitturi il viso, onori i suoi Totem, rispetti le sue squaw. E naturalmente che dia il suo contributo in battaglia, che dimostri il suo coraggio, che dia prova della sua volontà di essere un Sioux, e per questo lo sottopone a diverse prove, alcune estremamente impegnative, come la celebre prova del dolore che ha fornito l'immagine più evocativa di quel vecchio film.
Le comunità paesane o cittadine nostrane sono molto meno esigenti di una tribù Sioux, e pretendono assai di meno, ma alcune condizioni fondamentali sono universali e sono sempre le stesse. Oltre alle precondizioni pratiche territoriali di condividere spazio e risorse, alla condizione pratico-tecnica di condividere un linguaggio, alla condizione operativa di dare il proprio contributo attivo; e trascurando tutte le condizioni simboliche, che sono diverse ed hanno un significato profondo ma non costituiscono l'essenza della cosa, direi che quella che le riassume tutte è la condivisione di una concezione del bene.
Non è necessario essere nati in un posto o avere la pelle di un certo colore, anche se naturalmente essere nati in quel posto da un vantaggio di partenza (per esempio non c'è bisogno di imparare la lingua). È necessario dimostrare di essere disposti a venire a condividere un nucleo di valori fondamentali, e mostrare di essere animati da una volontà incrollabile di farne parte, superando delle prove.
L'ultima considerazione, pure importante, riguarda l'utilità di questo schema concettuale Tonnesiano, che a volte pure ho sentito mettere in discussione. L'utilità di qualsiasi cosa è sempre relativa a un fine: se il fine è comprendere, la nozione è utile assai. Ma è utile anche se il nostro fine è agire, perché il comprendere è presupposto di ogni agire.
Il liberalismo, ma mi piace di più dire il modello culturale borghese, è individualista, quindi anti-comunitario. Il sentire liberal-borghese rifiuta ferocemente le istanze comunitarie. Riducendo la comunità politica a civiltà giuridica, crede che tutto si riduca al "rispettare la legge", e chiama "razzista" quello che avverte l'importanza del vincolo comunitario e desidera che sia preservato.
Anche quando si sforza di rivolgere uno sguardo benevolo al sentire comunitario, lo fa sempre nella prospettiva borghese, per cui questo è un sintomo di arretratezza. I temi comunitaristi sono indigesti alla coscienza collettiva borghese: per lo studioso di sociologia magari sono più
familiari; ma per i molti allineati al comune sentire
qualunque accenno alle istanze comunitarie è avvertito come un sacrilego
attacco al dogma dell'individuo, unico depositario di dignità morale; e viene
rifiutato con sdegno prima ancora di essere esaminato. I pochi pensatori comunitari sono emarginati dal dibattito (Michael Sandel, Ivan Illich, Alasdair MacIntyre), mentre per esempio John Rawls, con la sua faticosissima
arrampicata sugli specchi per teorizzare un individualismo senza limiti, è
tenuto in altissima considerazione. In alcuni casi anche perché i comunitari hanno una piuomeno diretta anscendenza religiosa, il che basta
per renderli sospetti. Penso per esempio ad Elizabeth Anscombe: relegata tra i dimenticati, ma la sua allieva Philippa Foot ne aveva altissima
considerazione.
Ma il tipo progressista-colto egemone si strugge prima di tutto di misurare la distanza che lo separa dalle deprecate "masse" e di dimostrarla: si erge in uno scranno di superiorità, e da lì afferma dallo che queste "non hanno gli strumenti culturali e il coraggio per opporsi alla tirannia della maggioranza del proprio gruppo di appartenenza". Nella sua narrazione opporsi alla tirannia del proprio gruppo di appartenenza sarebbe necessario per la liberazione dell'individuo: chi non ne è capace difetta di strumenti culturali, oppure di coraggio. È la solita prospettiva borghese, quella di Stendhal e di Madame de Staël. Non considera neppure la possibilità che qualcuno possa - per scelta - rinunciare a questa "emancipazione" individuale in piena consapevolezza; e non si insinua in lui il dubbio che ci possa volere del coraggio proprio per fare questa rinuncia. Cioè che quell'individuo che sceglie di sacrificare il suo sé sull'altare dei valori comunitari sia per questo motivo, lui, un Eroe. Come Ettore, che è l'Eroe per antonomasia proprio perché si piega, e non si oppone, alle legge non-scritta del suo gruppo di appartenenza.
Se riuscisse a capire cos'è la comunità politica, come si forma spontaneamente, e a cosa "serve", forse potrebbe imparare a non disprezzarla, ed a spostare l'attenzione sulle condizioni di accesso. Non è che così il problema sia risolto, perché in queste condizioni sta uno scontro valoriale di proporzioni planetarie.
Ma almeno ci si solleva dal livello delle invettive - questo sì inutile - e si fa un passettino in avanti.